Il volume La Veterinaria Antica e Medievale raccoglie gli atti del secon-do Convegno internazionale di vete-rinaria antica, tenutosi a Catania nel 2007; a differenza di quanto avve-nuto a Brest nel 2004, in occasione del primo Convegno internazionale concernente tali studi, in questo se-condo incontro si segnala, come no-vità di maggior rilievo, l’apertura della tematica al periodo medievale e alle opere conservate in volgariz-zamenti romanzi, che sono comse nell’ultima parte del volume pre-sentato. La novità è certamente di rilievo e risulta molto promettente per il proseguimento di questa parti-colare branca di studi, in quanto, come osservano i curatori in aper-tura, la trasmissione nelle lingue ro-manze rappresenta la chiave di vol-ta per la comprensione dei testi vol- tar-do-antichi connessi con il tema della veterinaria, spesso mal conservati e ricchi di termini di difficile compren-sione.
La miscellanea è in gran parte de-dicata all’ippiatria, che ha quasi esclu-sivamente convogliato su di sé l’in-teresse per la veterinaria dell’Antichi-tà e del Medioevo, come osserva MARCELLO APRILE nel suo ampio ed
esaustivo articolo L’Ippiatria tra l’An-tichità e il Medioevo (pp. 323-388), che forse avrebbe potuto aprire il volu-me in considerazione della sua ac-cessibilità anche per i non addetti ai lavori e per la sua capacità di
intro-La Veterinaria Antica e Medievale: testi greci, latini, arabi e romanzi, a cura di V. ORTOLEVA E M. R. PETRINGA, Lumières Internationales, Lugano 2009
(Biblio-teca di Sileno 2), pp. 543.
durre il lettore in un argomento va-sto, complesso e generalmente poco conosciuto. Sono gli animali che più strettamente vivono a contatto con gli uomini ad attrarre, come è facil-mente immaginabile, l’attenzione de-gli studiosi di veterinaria antica: de-gli equidi in generale, meno frequente-mente gli animali da allevamento e, nel Medioevo, cani e falconi, entrambi connessi all’attività venatoria. Non deve dunque sorprendere che, all’in-terno della miscellanea, solo tre arti-coli non siano strettamente collegati all’ambito equino: la generale intro-duzione di IVAN GAROFALO (pp.
27-35) alle motivazione e alle meto-dologie presentate da Galeno per il suo studio, peraltro molto limitato, sugli animali, il trattato De Taxone presentato nel contributo di ARSENIO
FERRACES RODRÌGUEZ, che si
occu-pa delle proprietà magiche di varie parti del corpo del tasso, e l’analisi del De Mortibus Boum di Endelechio condotta da MA R I A RO S A R I A PE -TRINGA (pp. 243-258), che, avendo
come argomento un testo poetico e non un trattato, si discosta in parte dalla tipologia testuale più comune-mente analizzata nel volume.
ani-male. Come dimostra ENRICO LEO -NE (pp. 207-223) nella sua puntuale
ricostruzione dell’evoluzione della cavalleria dal mondo vicino-orienta-le al mondo greco, il ricorso a nuove tecniche militari di utilizzo del cavallo in Grecia nel V sec. a.C. ha reso ne-cessaria una maggior considerazio-ne della salute degli equini, in virtù del maggior addestramento richiesto e della comprensione dell’esistenza di caratteristiche individuali, e dunque difficilmente sostituibili, tipiche di ogni singolo elemento, dando origi-ne, probabilmente, alla pratica ippiatrica. Strumenti come le pesan-ti imboccature vicino-orientali, in grado di ledere i tessuti molli del-l’animale, o la museruola bassa che costringe il cavallo per soffocamen-to, noti da dati archeologici e iconografici, indicano uno scarso addestramento dell’animale e un suo utilizzo ben al di sotto delle sue pos-sibilità: il cavallo è costretto mecca-nicamente a sottomettersi all’uomo anche a discapito della sua salute e della sua velocità sul campo, che non è però necessaria laddove si richiede al cavallo di guidare un carro che non potrebbe comunque accedere ad alte andature. Solo quando la tattica mi-litare si evolve, prevedendo la pre-senza di cavalli da sella, l’addestra-mento si rivela necessario, come l’uso di strumenti di controllo meno dolo-rosi e più sensibili e si raccomanda un controllo della salute dell’anima-le.
L’ipotesi di una tale antichità della tecnica ippiatrica, certamente affa-scinante e plausibile, non può comun-que essere accertata, dato che i testi
di ippiatria che ci sono giunti sono tardi, composti generalmente in età Tardo-Antica, benché tutti derivati da opere precedenti, su cui si possono solo avanzare ipotesi e di cui gli esiti successivi rappresentano compendi ed epitomi, secondo una pratica tipi-ca del periodo. Se i testi latini sono riusciti, seppur in poche copie e spes-so malamente, a spes-sopravvivere alla selezione, gli autori greci sono noti solo attraverso estratti o traduzioni successive in compendi che ne ricor-dano nomi e rimedi, a cui si aggiun-ge una notevole imprecisione di al-cune redazioni che ha fatto sospet-tare che i copisti possano aver tra-scritto i codici senza aver compreso il loro significato. Come ricorda ANNE-MARIE DOYEN-HIGUET (pp.
che pur presentando un discreto nu-mero di elementi magici e astrologi-ci, indicano un grado di avanzamen-to delle conoscenze, specialmente a livello botanico e chirurgico, non tra-scurabile.
Una caratteristica notevole, e ben messa in luce da MARIE-THÉRÈSE
CA M nel suo contributo Manus
veterinarii. La réduction des luxations dans les traités vétérinaires antiques riguarda un’altra modificazione dei testi di veterinaria nel tempo: non soltanto chi riceve un testo può emendarlo, aggiungendo elementi tratti dalla sua pratica personale o modificando una veste linguistica avvertita come trop-po semplice o troptrop-po complessa, ma si nota anche una progressiva tecnicizzazione dei manuali, elemento già evidente nel Tardo-Antico e an-cora più chiaro nel Medioevo. L’ana-lisi comparativa dei testi che riguar-dano la diagnosi e l’eventuale cura dei diversi tipi di lussazione in cui i cavalli possono incorrere consente all’autrice di notare la regressione delle parti di spiegazione anatomica e traumatica a favore di indicazioni tecnico-pratiche, tra cui veri proto-colli di cura, più o meno minuzio-samente spiegati, per l’azione manua-le del veterinario sull’equino. I casi che non possono essere guariti non sono più trattati, mentre le tappe di terapia e guarigione sono, nei testi più tardi, esplicitamente e precisamente indicati; i testi latini, inoltre, si sof-fermano poco sulle causa di un’even-tuale lussazione, ampiamente prese in considerazione dai greci, ma ag-giungono nuove modalità di riduzio-ne che i greci, con ogni evidenza,
ancora non conoscevano: l’articolo dunque, pur trattando di un argo-mento estremamente specifico, e quindi potenzialmente poco atto alla comprensione dei non addetti ai la-vori, dimostra che la lettura dei testi veterinari è proficua su diversi livel-li, in quanto, ad esempio, evidenzia l’influenza delle nuove culture bar-bariche, apportatrici di nuovi saperi pratici, sulla popolazione latina.
Gli stessi caratteri tecnico-pratici mostrati dalla letteratura latina sono evidenti anche nella produzione ara-ba, che, come mostrano VERONIKA
GOEBEL e MARTIN HEIDE (pp.
293-307), è interessata non solo alla cura del cavallo, ma anche alle sue qualità fisiche, come il riconoscimento dei suoi difetti e delle sue caratteristiche. La trattazione relativa all’origine delle malattie, generalmente legata alla te-oria umorale, è abbreviata ancora mag gior mente nel fondamentale trattato di Ibn ahi Hizam. L’autore si serve delle tipiche fonti greche del-l’ippiatria, come evidente non solo nella tipologia di mezzi utilizzati per curare gli animali, ma anche nello stile stesso dei rimedi; sebbene, an-cora una volta, si possa comunque notare un apporto personale del sa-pere dell’autore, evidente nell’impie-go di nuovi rimedi provenienti dal mondo arabo, il testo di Ibn ahi Hi-zam permette di far luce sulla com-plessa storia testuale della trattatistica greca, fornendo indicazioni su quel-la che potrebbe essere una parte del-la tradizione persa nell’originale, ma conservata solo nella resa araba.
evi-dente dalla storia dei testi latini tra-smessi nel mondo romanzo: proprio per la continua evoluzione della tec-nica ippiatrica, i rimaneggiamenti e le traduzioni nelle varie lingue ro-manze possono fornire valide infor-mazioni sulle complesse vicende dei più noti testi veterinari medievali. A differenza della trattatistica di epo-ca tardo-imperiale, infatti, che nel Medioevo gode di scarsissima stima, dimostrata dal ridotto numero di ma-noscritti in nostro possesso, si osser-va una diffusione su amplissima sca-la del più noto manuale di mascalcia medievale, composto da Giordano Ruffo attorno al 1250: diversi con-tributi della quarta parte del volume presentato sono relative alle vicende del suo De medicina equorum, testo di cui manca ancora un’edizione criti-ca che restituiscriti-ca il testo latino, lin-gua in cui si suppone che l’opera sia stata originariamente composta. An-cora una volta, il fondamentale arti-colo di Aprile mette a disposizione dei non specialisti le conoscenze ne-cessarie alla comprensione dei con-tributi tecnici sull’argomento, offren-do da un lato alcuni fondamentali dati sulla composizione dell’opera, tra cui un inquadramento spazio-temporale e una panoramica sul contenuto, dal-l’altro un dettagliato computo sia degli autori che si sono ispirati, in modo più o meno dichiarato e com-pleto, all’opera di questo autore, sia della bibliografia moderna sull’argo-mento. Particolarmente importante per l’inquadramento generale del-l’opera è anche il contributo di SANDRO BERTELLI (pp. 389-428), che,
in un paragrafo introduttivo alla sua
analisi dei volgarizzamenti toscani del testo di Giordano Ruffo, presen-ta l’opera in generale, sottolineando alcune importanti divergenze tra gli interessi di Ruffo, squisitamente de-dicati ai cavalli nobili, e i trattati più antichi, in cui emerge ancora un in-teresse per gli animali da lavoro, tra cui le altre tipologie di equidi, come asini, muli e bardotti. Bertelli mostra, attraverso l’analisi dei manoscritti toscani del testo del veterinario calabrese, che anche nel Medioevo il copista dell’opera di Ruffo si sente autorizzato a modificare il testo in base alla sua personale esperienza, creando dunque una situazione edi-toriale resa ancora più complessa dalla sovrabbondanza di codici e di volgarizzamenti in varie lingue.
D’altra parte, proprio questa pe-culiarità della tradizione, e delle corruttele, dell’opera di Ruffo rende quest’ultima di particolare interesse per la storia della lingua, come dimo-strato dal contributo di ANTONIO
MONTINARO (pp.471-530), che
permet-te di aggiungere un’importanpermet-te casel-la al complesso puzzle linguistico del Mediterraneo del XV secolo, in cui appare sempre più probabile l’utiliz-zo dell’italoromanl’utiliz-zo a Tunisi, in am-bito politico e commerciale anche tra non italiani. In un tale quadro, Montinaro suggerisce che i possibili fruitori dell’opera di Cola de Jennaro siano dunque molteplici: i numerosi schiavi italiani che si trovano a lavo-rare a Tunisi, ma soprattutto i fun-zionari e i mercanti, di varia origine, che operano nella città.
Lo studio di questo volgariz-zamento, dunque, offre notevoli ri-svolti culturali e storici, come sotto-lineato anche da ALESSANDRA COCO
(pp. 429-470), che nella sua analisi della tradizione relativa al trattato in volgare dello pseudo-Aristotele, si sofferma anche sulle motivazioni sto-riche che possono aver reso neces-saria la composizione dell’opera, sug-gerendo che siano relative alle mo-dalità di compra-vendita degli animali in un momento precedente alla regolamentazione di tale commercio. Anche lo studio del trattato dello pseudo-Aristotele, d’altra parte, è strettamente legato all’analisi lingui-stica, come, d’altra parte, accade per tutti i testi analizzati nei contributi del volume proposto: il testo, infatti, è trasmesso in due diverse versioni , una toscana e una genericamente in-dicata come appartenente alla koiné settentrionale e l’analisi linguistica serve, dunque, anche per garantire la correttezza dello stemma codicum.
Un tale ausilio non è da trascura-re, come dimostrano numerosi arti-coli del volume proposto, poiché
molto spesso i testi antichi e medie-vali di veterinaria presentano delle gravissime difficoltà nella ricostru-zione del testo e molte edizioni criti-che hanno storie travagliate o man-cano completamente, come nel caso della già citata mascalcia di Giordano Ruffo. In questo senso si possono leggere gli inter venti di Coco, di Montinaro e di MARTINA HURLER
(pp. 309-322), che presenta un auto-re, Magister Maurus, spesso autono-mo rispetto a Ruffo, e di AN N E
MCCA B E (pp. 39-54), di
Doyen-Higuet, di KLAUS-DIETRICH FISCHER
(pp. 113-122) e di Còzar per il peri-odo tardo-antico. Le principali problematiche messe in luce dai con-tributi sono la già evidenziata ten-denza a modificare il testo tradito in base alla propria esperienza e, per quel che riguarda la trattatistica in lingua greca, lo smembramento del-le opere originali in manuali di con-sultazione.
particolare autore avrebbe il vantag-gio di una migliore valutazione delle particolarità, specialmente tenendo conto delle diverse condizioni in cui ognuno ha lavorato; d’altra parte, come è stato ampiamente mostrato, i testi a noi pervenuti dei trattati di veterinaria sono stati modificati da-gli editori successivi a tal punto da indurre cautela in considerazione delle estrapolazioni di alcune parti dal loro specifico contesto.
L’altro fondamentale vantaggio di un’edizione digitale riguarda gli indi-ci: come osserva ancora McCabe, la creazione di un indice completo de-gli Hippiatrica, che comprenda, per esempio, ogni uso di sostanze anche comuni, rischierebbe di rendere il testo poco consultabile. Un’edizione digitale degli indici, invece, permet-terebbe ogni genere di ricerca lessicale, aspetto questo estremamen-te rilevanestremamen-te, estremamen-tenendo conto della pe-culiarità dei testi ippiatrici. La diffi-coltà di resa terminologica – ma an-che della comprensione stessa – di particolari vocaboli tecnici è, infatti, argomento di una parte consistente dei contributi del volume: la tradu-zione di manuali specialistici, come è facile immaginare, apre il campo a numerose incomprensioni e a veri e propri errori, come nota corretta-mente McCabe, nel riferirsi a un’eventuale e auspicabile tradizio-ne inglese degli Hippiatrica.
D’altra parte, già anticamente la questione della traduzione doveva essere particolarmente rilevante se, come nota VALÉRIE GITTON-RIPOLL
(pp. 91-112), nel mondo latino sono attestate diverse traduzioni
dell’ope-ra di Apsirto: quella nota di Chirone e un’altra, opera dello stesso Pela-gonio, in cui i tecnicismi greci sono semplicemente traslitterati, che è ipotizzata dall’autrice nel contributo proposto, secondo la quale, peraltro, nel testo di Pelagonio sarebbero pre-senti anche altre due traduzioni da Apsirto. La traduzione di Pelagonio mostra la difficoltà di traduzione, già per gli antichi, di alcuni termini, tec-nici o tipici del parlato, forse non solo per una cattiva conoscenza del gre-co, ma soprattutto per lo stesso mo-tivo per cui gli autori moderni av-vertono difficoltà di comprensione, cioè per le scarse informazioni for-nite dagli autori: Cam, per esempio, osserva come la ruota, il cui uso è suggerito per la riduzione di lussa-zioni, non è descritta da nessuno de-gli autori latini che ne parla, poiché essendo uno strumento ben familia-re a chi scrive non si sente alcun bi-sogno di aggiungere altre informazio-ni, lasciando dunque nel dubbio il let-tore e l’interprete moderno.
Che anche gli autori antichi fossero in difficoltà davanti all’interpretazio-ne di alcuni termini tecnici è, d’altra parte, ben espresso anche nel saggio di apertura del volume, Sulla polisemia di hippomanes di ANTONINO ZUMBO (pp.
nell’altro caso, il suo uso sia erroneo e legato alla magia popolare, pur es-sendo necessario utilizzarlo in assen-za di un omologo più preciso. Nono-stante la decisa presa di posizione di Aristotele, che influenza, ad esempio, Plinio ed Eliano, non tutte le occor-renze di hippomanes sono riferibili alle escrescenze dei puledri, come dimo-stra chiaramente Virgilio, che usa il termine nell’altro significato, forse perché indotto sia dalla conoscenza del testo aristotelico, sia dall’ambien-tazione pastorale, più portata a un uso linguistico “magico” che “scientifico”. Nel caso appena riportato, però, è quanto meno facilmente identi-ficabile quale sia il significato del ter-mine, poiché si limita la scelta a due, se non a tre, possibili referenti. Più complicato è il discernimento del valore di un vocabolo quale draco-natio, il cui uso all’interno della Mulomedicina Chironis è oggetto del saggio di ADRIANA DAMICO e FEDE -RICO MESSINA (pp. 141- 152) e che
appare esclusivamente all’interno di tale testo. In queste condizioni, e te-nuto conto delle scarne spiegazioni normalmente offerte in materia di sintomi dagli autori latini tardo-anti-chi, diventa realmente complesso in-dividuare il reale significato del ter-mine, che in due occorrenze appare come un’escrescenza o un gonfiore e in un’altra definisce la patologia che genera tali manifestazioni. Gli autori osservano anche in questo caso che il termine non viene spiegato ulte-riormente perché, molto probabil-mente, di circolazione quotidiana. Il confronto con l’evoluzione roman-za del termine non aiuta la
compren-sione del testo, poiché non esistono esiti romanzi immediatamente rico-noscibili di tale tecnicismo. A diffe-renza di precedenti tentativi etimo-logici, che, come è noto, possono essere for temente fuor vianti, la metodologia applicata dagli autori alla soluzione di questo problema appare ben fondata: istaurato un pa-rallelismo con la terminologia medi-ca “umana” in lingua gremedi-ca, è possi-bile riconoscere un antecedente me-dico di questo termine veterinario. Analizzando l’evoluzione nel tempo dei termini appartenenti all’ambito semantico della draconatio, si nota una tendenza all’evoluzione verso un si-gnificato, sempre più aspecifico, di “ulcera” o “gonfiore” e l’esistenza di forme alternative al tecnicismo nel-la forma del più diffuso, in ambito romanzo, dracunculus, che a sua volta aveva perso ogni legame con l’origi-naria malattia da esso indicata, va-lendo, genericamente, per ogni for-ma di affezione cutanea.
Un problema simile è affrontato da VINCENZO ORTOLEVA (pp. 153-181),
produrre qualcosa di diverso dalla zoppia, e il rimedio proposto. Se il confronto con altre opere in cui sono attestati l’espressione pedem planum ponere e l’aggettivo miser permette di individuare il loro significato, non altrettanto semplice è risolvere la questione del significato del sostan-tivo claucus. Il termine, infatti, potreb-be essere inteso sia come “suola”, sia come “chiodo”, sia come “ferro da cavallo”, una evidente difficoltà, vi-sto che, come spiega esaurientemen-te STRAVROS LAZARIS (pp. 259-291)
nel suo intervento dedicato espres-samente alla ferratura del cavallo, è difficile ammettere che nei testi lati-ni esista un riferimento a una tale pratica. Ortoleva risolve la questio-ne, oltre che attraverso i consueti mezzi della filologia e dell’archeolo-gia, con il ricorso alla veterinaria moderna, che in effetti ha mantenu-to, in taluni casi, il suggerimento di calzare la zampa sana di un animale che presenta una zampa dolorante, e dunque a rischio di atrofia, con uno strumento che obblighi l’animale a far lavorare l’arto dolente. I testi antichi e alcuni scavi archeologici, in effetti, mostrano il ritrovamento di tali strumenti, noti come ipposandali, che potevano avere funzione medi-ca o estetimedi-ca. Il termine ipposandalo, però, è invenzione moderna, attesta-to in antico più diffusamente come solea ferrea, che è esattamente il modo in cui esso compare nella Mulo-medicina Chironis in luogo del termine claucus adoperato da Vegezio: proba-bilmente, Vegezio si ser ve di un tecnicismo più moderno rispetto al-l’indicazione di Chirone.
suoli inadatti, ma in cui la cavalleria era duramente messa a prova da stru-menti di guerra che provocavano danni dolorosi agli animali. Da qui la necessità dello sviluppo di una ferratura, una vera suola di ferro, che coprisse l’intera superficie dello zoc-colo, con un piccolo foro centrale dovuto al necessario contenimento dell’umidità.
Come mostrano gli articoli di Ortoleva e di Lazaris, ma anche il sopracitato contributo di Leone con-cernente l’evoluzione del morso, lo studio della veterinaria antica e me-dievale presuppone non solo compe-tenze archeologiche e filologiche, che sono assolutamente fondamentali, vi-sta, da un lato, l’assenza di testi di riferimento e, dall’altro, l’incuria della tradizione: talora, infatti, solo il ri-corso a nozioni di veterinaria moder-na può spiegare le difficoltà dei testi considerati. Il contributo di Leone è particolarmente significativo a que-sto riguardo, in quanto mostra come, attraverso la comparazione del dato archeologico con il dato moderno, sia possibile comprendere quale fosse l’utilizzo e la considerazione del ca-vallo nel mondo medio-orientale e greco.
La multidisciplinarietà, dunque, sembra essere la chiave di volta per un accesso approfondito al comples-so mondo veterinario, che può esse-re d’aiuto, come giustamente nota Còzar, sia a un pubblico affascinato dagli aspetti scientifici e veterinari delle opere, quanto agli studiosi di
storia delle varie lingue interessate alla tradizione di questi testi. Leone aggiunge che, se i trattati antichi di equitazione possono risultare oscuri a chi non conosca bene la materia, il ricorso a un team di specialisti della scienza veterinaria moderna può aprire la strada a una corretta inter-pretazione del rapporto tra uomo e cavallo nell’antichità. Il volume pro-posto ben evidenzia e amalgama que-sti aspetti, come dimostrano anche le ottime ed utili illustrazioni a margine di alcuni tra i contributi più tecnici.
Solo poche osservazioni critiche, marginali, possono essere avanzate sull’opera nel suo complesso, tenen-do conto dell’eccezionale valore di un prodotto che si potrebbe definire quasi unico nel suo genere: l’organiz-zazione del materiale rende difficil-mente fruibile il testo al non-specia-lista, poiché i contributi più generali, che aiuterebbero a prendere confi-denza con la materia, avrebbero po-tuto essere inseriti in apertura al vo-lume; l’articolo di Lazaris, forse, avrebbe trovato più opportuna col-locazione nella sezione archeologica che in quella medievale, rispetto alla quale appare sostanzialmente estra-neo. Infine, pur in considerazione della difficoltà di una tale operazio-ne, sarebbe forse stato utile confe-zionare un indice, quanto meno de-gli autori trattati: i riferimenti ad essi sono spesso presenti in diversi con-tributi e, quindi, risulta difficile farsi un’idea unitaria delle loro specifiche conoscenze e competenze.