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13.2 Sisa Tabet Lopez TRENTA LIRE PER UN

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Academic year: 2018

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TRENTA LIRE PER UN FATTORI

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Queste pagine livornesi, che risalgono con la memoria agli   ultimi   due   decenni   dell'altro   secolo,   sono   una testimonianza di prima mano: chi le ha scritte si avvia a compiere, nel prossimo ottobre, il suo novantesimo anno di età. Con mente lucida, e con penna non tanto discorde da quella del suo non meno livornesissimo marito,  il   commediografo  Sabatino,   ecco   la  signora Sisa   rievocare   fatti   e   fatterelli   relativi   ai   bagni   di Pancaldi e alla retata dei grandi pittori maremmani e toscani di quegli anni. 

M

i dicono che il quadro più importante di Niccolò Cannicci — a sua volta tra i pittori oggi piu quotati del secondo Ottocento italiano — sia rinchiuso in una cassaforte in Svizzera, e che il suo   attuale   proprietario   —   un   industriale   del   Varesotto   —   per   ottanta   milioni   non   lo cederebbe; neppure per cento, dicono. Però, a tenerlo in vista non si fida (troppo alto il rischio del furto, e quindi il prezzo di una polizza): né a casa propria, né in prestito per mostre pubbliche.

Capisco e non capisco. Il risultato, comunque, è che mi tocca rassegnarmi all' idea di andarmene  all' altro mondo senza più rivederlo. Mi spiace non soltanto perche   è un bel quadro — lo   pubblicò   per   primo   Ugo   Ojetti,   includendolo   nei   duecentotrenta   capolavori dell' Ottocento italiano esposti alla Biennale veneziana del 1928, — ma anche, e soprattutto, perché   di   quelle   tre   sorelle   sedute   alla   << rotonda >>   di   Pancaldi — in   abito   di   città, naturalmente, nell' attesa di uno spogliatoio libero per fare il bagno — quella col giacchino a righe che lavora ad ago è mia Madre; quella dal vestito bianco è mia zia Sisa Carmi; quella in nero   col   ventaglio   sul   grembo   è   la   zia   Marietta   Mieli.   La   Sisa   si   ripara   dal   sole   con l' ombrellino aperto, un altro ombrello posato sulla sedia; su tutte e tre piove una luce afosa di pieno luglio. La data: 1880. 

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Ai bagni di Pancaldi, ombrellini e ventagli

Il nome di Pancaldi, specie per i forestieri, che a quei tempi accorrevano a Livorno per l' estate,   era   un   nome   fascinoso,   e   inscindibile   dalla   città.   Sotto   la   fitta   tenda   della   sua << rotonda >>, che provvidenzialmente impediva ai raggi cocenti del sole di abbronzare il candore perlaceo delle braccia e delle spalle, si potevano ammirare le più eleganti, ricche, avvenenti dame della città, che facevano mostra dei loro abiti nuovi comprati a Firenze o a Torino, da Ventura o dall' Aloisi, la celebre carissima  sarta livornese;  e anche  quelle  di fuorivia, di Parigi, di Vienna, e le artiste che mandavano in visibilio le platee. Era tutto un guardarsi e un farsi vedere. Quelle che si frequentavano per parentela o per stretta amicizia, formavano dei crocchi e, per meglio sentirsi, accostavano le sedie. Probabilmente, quando una di loro si faceva  ancora più vicina,  coprendosi la bocca con l' ampio  ventaglio — a evitare che orecchie indiscrete udissero ciò che veniva confidato — si trattava di svelare e commentare qualche piccante notizia, e il racconto era punteggiato da risatine sommesse, da esclamazioni scandalizzate. Poi, un solo sapiente colpo del ventaglio sul petto, che il busto troppo stretto all vita faceva traboccare verso la scollatura, era sufficiente per richiuderlo; un attimo più tardi, il ventaglio riaperto tornava al suo ufficio di porgere un po' di sollievo al grande caldo. E' andata perduta, oggi, la mimica dei ventagli; una mimica scandita dal ritmo del   polso,   dal   contrappunto   delle   occhiate,   languide,   fulminee,   aggrondate,   ambigue, svenevoli, fra il su e il giù delle grandi ruote multicolori: << Ti amo >>, << Ti odio >>, << Abbi prudenza >>, << Ci vediamo poi >>.

Non   proprio   tutte   le   signore   e   signorine   che   frequentavano   i   bagni   del   sor Pancaldi — o quelli, attigui, del sor Palmieri, più appartati e tranquilli, e che proprio per questo erano prediletti dal Carducci (altri stabilimenti avevano nomi come questi: Scoglio della   Regina,   Trotta,   Sgarallino) — scendevano   al   mare   per   esercitarsi   nella   mimica   del ventaglio. Quelle che avevano i figli giovinetti, presto abbandonavano la compagnia delle amiche e i discorsi di gruppo, per sorvegliare i figli nei loro giuochi. I maschietti, fra le braccia di Tenebrone, il marinaio che insegnò il nuoto a metà dei bambini che frequentavano Pancaldi, per lo più guazzavano nel mare o schettinavano sui pattini a rotelle nell' ampio spiazzo apposito della << rotonda >>; le ragazze passeggiavano su e giù, riunite a gruppi di amiche,  sbocconcellando magari  un pasticcino da cinque centesimi, appena acquistato  in Stabilimento.

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abiti, giudicava a che punto fosse l' operazione del rivestirsi: << Sono quasi pronte, ora tocca a voi >>, diceva alle signore in attesa sulla terrazza.

Occorre dire che gli spogliatoi erano fatti a forma di piccoli padiglioni di tela bianca e sistemati su una palafitta: le signore vi entravano con l' ombrellino, il cappellino, il ventaglio e tutto il resto << da città >> si slacciavano e toglievano il busto, sostituivano il vestito << da terra >>   col   vestito   << da   bagno >>,   quindi   si   lasciavano   scendere   per   una   scala   al rettangolino di mare sottostante la cabina, e da quel quadratino — a meno che non sapessero nuotare verso il largo — non si muovevano per niente, sempre lì, a mollo.

A sua volta, il costume << da bagno >> non era affatto concepito per sposarsi con l' acqua, né per esporre la pelle al sole (soltanto i facchini del porto si lasciavano abbronzare viso e braccia) né tanto meno — Dio ne liberi — per sottolineare le fattezze delle bagnanti. Il costume da bagno << era un vero e proprio vestito che non lasciava in vista, del corpo, nemmeno un pezzetto così. Gli stessi calzoncini, che giungevano fino a metà del polpaccio addentato da un elastico, venivano coperti più per eccesso di pudore che per pretesa eleganza, dalla sottana di una specie di redingote non rigorosamente chiusa sul davanti, la quale sottana cadeva, con certa burlevole illogicità, da una specie di marinaretta accollata, con grazioso motivo  delle  àncore  ai due lati  della  pistagna >>. La descrizione,  dovuta alla penna più nostalgica che ironizzante di Marino Moretti, rievoca il costume da bagno portato da sua madre sulla spiaggia di Cesenatico; ma si attaglia anche ai costumi di Pancaldi, metà e fine­ secolo, confezionati in una speciale stoffa nera o di un blu scurissimo, che, per la sua rigida natura, anche bagnata non aderiva al corpo. Aggiungete al tutto le calze, 1' ampio cappello e la cuffietta, ed eccovi l' imbacuccata ondina livornese del Granducato di Toscana e della Nuova Italia. E se a Livorno vigeva la promiscuità dei sessi, gli stabilimenti balneari di Marina di Pisa e dell' Adriatico tenevano ben distinte le fila di cabine per gli uomini da quelle per le donne; e anche il mare antistante era accuratamente suddiviso fra i due sessi. Luogo d' incontro promiscuo restava, per lo più, un gran salone centrale, dove ci si fermava a fare quattro chiacchiere, prima e dopo il bagno, mangiare un bombolone, ordinare una bibita, un sorbetto; purché, si intende, uomini e donne si fossero accuratamente vestiti o rivestiti da città. Proprio, insomma, come mia madre e le sue sorelle nel quadro del Cannicci. 

Lo zio che posò per Ximènes

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dello Ximenes: fracasso di cocci  con accompagnamento  di carillon,  esultanza dei bimbi, proteste della Mamma. 

Mio padre e gli amici << macchiaioli >>

Ma, per tornare alle << Tre sorelle >> del Cannicci, oggi intristite nella cassaforte, io penso che quel quadro sia stato commissionato al pittore da Adolfo stesso, un po' per il piacere di averlo, un po' per aiutare il pittore economicamente. Come tutti — o quasi — i suoi colleghi, Cannicci   era   molto   povero,   e   affetto   da   una   incoercibile   forma   di   timidezza.   Nativo   di Firenze,   dove   aveva   studiato,   per   gran   parte   dell' anno   tuttavia   lo   trovavi   piuttosto   a Montemiccoli,   presso   S.   Gimignano,   installato   in   due   povere   stanze,   avendo   per compagna — come Ojetti ricordava — una civetta. Gli amici gli dicevano: << Màndala via; puzza! >>. E lui, << Ma no, poverina, quando mi sveglio mi dà il buongiorno >>. Lui stesso ci   raccontò,   nostro   ospite   a   colazione,   di   avere   una   volta   saltato   il   pasto   per   colpa   di Ferdinando Martini venuto apposta a S. Gimignano per rendere visita al pittore; o piuttosto per colpa del proprio esagerato ritegno. Martini era, a quel tempo, personaggio di grosso rilievo. A vederselo inaspettatamente in studio, Cannicci si sentì travolgere dalla confusione. Invitato in trattoria da Martini, in un assalto di autolesionismo disse: << No grazie, non si disturbi:   ho   mangiato   da   poco >>.   Con   il   che,   dovette   poi   fargli   da   guida   per   tutto   il pomeriggio con una sola scodella di caffelatte nello stomaco: quella del risveglio.

Non   minore   era   l' insormontabile   soggezione   di   Cannicci   davanti   alle   signore dell' aristocrazia (tanto che le sue modelle erano per lo più contadinotte); e di quel suo difetto spesso rideva con i miei genitori e con tutti noi. Peccato: il quadro di Pancaldi — che rimase in   casa   Belimbau   sino   alle   gravi   ristrettezze   delle   << leggi   razziali >>   e   della   seconda guerra — ci dice quale splendido interprete di costume egli avrebbe potuto essere: con quale freschezza di sguardo.

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alla fine, eccolo col suo foglio da cinquanta per ritirare il quadro. E il Fattori: << Ma come?! non   si   era   stabilito   dieci? >>   << Sì,   ma   io   non   sono   un   ladro.   Prendi >>.   << Non   le prendo >>...

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Una villa in regalo al pittore Corcos

Sempre   a   quei   tempi,   nella   zona   di   Castiglioncello   si   davano   convegno — oltre   ai pittori — cacciatori e gitanti da Livorno, per via della bellezza del paesaggio, ma anche per merito di una eccellente trattoria ai bordi della pineta. Il rumore del mare, l' urlo del libeccio nelle giornate ventose, di tratto in tratto il fischio del treno, scuotevano la quiete di quei luoghi, il sottofondo continuo delle cicale. Proprietari di gran parte della zona erano i conti Ginori; ma un certo Pasquini2 aveva avuto l' infelice idea di costruirsi per abitazione un finto

castello medioevale circondato da mura così alte da impedire la vista, secondo la moda allora in voga soprattutto in Piemonte (e così, quando si parlò di costruire una stazione dove i treni sbarcassero i nuovi villeggianti, anche la stazione fu costruita come un edificio del Trecento).

Il Pasquini era particolarmente appassionato di pittura, e amico dei pittori. Non fece in tempo (altra generazione) a farsi mecenate di Fattori o di Cannicci, ma il suo << protetto >> fu un altro toscano, un livornese purosangue, Vittorio Corcos. Corcos era essenzialmente un ritrattista, assolutamente infallibile nelle somiglianze, disputato dalle famiglie bene (il suo ritratto della zia Marietta ha varcato l' oceano per l' America del Sud con gli eredi Mieli; quello dell' amico Adolfo credo sia rimasto in casa di mio cugino, a Firenze) e più volte chiamato a Corte, non soltanto da quella dei Savoia a Roma, ma da Guglielmo II a Berlino e da Alfonso XIII, l' ultimo Re di Spagna. << Le nostre cerimonie sono molto fastose, e val la pena di vederle — gli fece sapere il sovrano Spagna — Le manderò l' invito per la prossima, con   privilegio   di   tenere   il   cappello   in   testa   in   mia   presenza.   Non   si   lasci   sfuggire l' occasione — aggiunse — temo proprio che questo invito sarà anche l' ultimo ricevimento della mia Corte >>. E lo fu, infatti.

Corcos era un arguto parlatore, un vero uomo di mondo e un mostro di eleganza. In un quadro che a suo tempo fu largamente  ammirato  (dovrebbe trovarsi tuttora  alla  Galleria d' Arte Moderna a Roma) e che si intitola  Sogni, è ritratta la sua musa ispiratrice, Elena Vecchi. Il padre di lei, ufficiale di marina, era noto come autore di libri per ragazzi e opere d' argomento marinaresco, firmate Jack la Bolina. In casa del nonno di lei, a Quarto, si era radunato il quartier generale della spedizione garibaldina per la Sicilia. Noi eravamo grandi amici   di   Corcos,   di   Jack   la   Bolina   (che,   bontà   sua,   mi   aveva   soprannominato   << la principessina >>), di Elena Vecchi; più tardi, d' una delle figlie del pittore, la Memmi (il figlio maschio, Pimpi, morì di malattia, al fronte, nel corso della prima guerra mondiale). Della  loro  madre — e  moglie   ufficiale   di  Corcos — sapevamo  che  era  una  bas­bleu  che

2Il castello fu costruito ­ dice il Dini ­ da un certo Patrone, genovese, che proveniva 

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vantava amicizie  epistolari con il Pascoli, amicizia  intellettuale — forse più — con Padre Pistelli, l' autore delle Pìstole d' Omero, un libro garbatamente satirico (con protagonista uno scolaretto delle elementari Omero Redi) che ebbe un lungo periodo di celebrità.

Non so precisamente come sia avvenuto l' incontro fra Vittorio Corcos e quel tal signore che si era fatto costruire la villa­castello ai bordi della pineta. Certo è che questi, passeggiando un giorno in vista del mare, che a Castiglioncello si frange contro scogliere rivestite di arbusti e di ginepri, improvvisamente gli espose un suo generoso proposito: << Ti regalo un terreno qui, che tu possa costruirci una casa con giardino e con tutto lo spazio e la luce che vuoi per il tuo studio >>. Corcos sorrise, puntò il dito verso la punta della scogliera, al termine di una larga insenatura, e disse: << Ecco, quello sarebbe il punto che sceglierei. Quello o nessun altro. Ma cosa me ne faccio di un terreno? dove trovo i soldi per costruire la casa? >>.   L' altro   lì   per   lì   non   disse   nulla;   ma   l' estate   successiva   Corcos   ricevette   un cartoncino con una chiave: la sua << casetta >> era già bell' e pronta. 

Amedeo Modigliani il << marrano >>

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