laboratorio est/ovest
leo
~ miscellanea
collana diretta daLuigi Marinelli
Politica dell’arte, politica della vita
Tadeusz Kantor fra teatro, arti visive e letteratura
a cura di Luigi Marinelli, Valentina Valentini e Andrea Vecchia
in memoria di Józef Chrobak
Grafica e impaginazione: Paolo Tellina Logo “leo”: Donato Sammartino
© 2018 Lithos Editrice Via Vigevano 2 – 00161 Roma Tel./Fax 0644237720
www.lithoslibri.eu lithoslibri@libero.it
I
NDICEPremessa di Luigi Marinelli, Valentina Valentini 9
«N
oNsieNtraateatroimpuNemeNte»
K
aNtoreilteatrodelN
oveceNtoeuropeoRequiem per Tadeusz Kantor 21
Michal Kobialka
Kantor redivivo: l’arte come un campo di battaglia 33
Katarzyna Fazan
Tadeusz Kantor e la forma della danza macabra:
ballare con e contro la morte 55
Helga Finter
L’opera di Kantor come prologo alle scene della dissociazione
nel teatro di figura contemporaneo 65
Didier Plassard
Tadeusz Kantor: verso un “teatro invisibile” 73
Karolina Czerska
Kantor – Tatlin – Mejerchol’d. Il costruttivismo
nella prima e nella seconda avanguardia 93
Katarzyna Osińska
«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett 111
Tommaso Gennaro e Luigi Marinelli
Tra il mondo (vero) e i meta-mondi, oscillando alla soglia.
Tadeusz Kantor e la logica del Novecento 125
«N
oNhodeicaNoNiestetici»
K
aNtor,
artistaplasticodelN
oveceNto Considerazioni sul ruolo del disegno nell’operadi Tadeusz Kantor e di Edward Gordon Craig 143
Lech Stangret
L’incontro tra Kantor e Beuys. La mostra Beuys | Kantor:
Remembering all’Israel Museum di Gerusalemme. 2012 157 Jaromir Jedliński
Oggetti che sfidano la modernità:
Tadeusz Kantor vs Marcel Duchamp 175
Carla Subrizi
Dall’azione alla zattera – uno scarno abbecedario 187
Paola Bianchi
“La classe morta” di Tadeusz Kantor:
appunti per una grammatica della commozione 193
Andrea Vecchia
Il teatro sonoro di Tadeusz Kantor 205
Valentina Valentini
Attorno alle questioni di partitura e drammaturgia sonora
nel teatro di Tadeusz Kantor 223
Walter Paradiso
L’immagine sonora nel teatro di Tadeusz Kantor 231
Daniele Vergni
«r
omaNoNerapeggiodellamiaW
ielopole»
K
aNtorel’i
taliaKantor in cattedra. L’inquieto maestro delle «lezioni milanesi» 239
La conoscenza dell’opera di Tadeusz Kantor in Italia
dalla fine degli anni ’50 al 1990 251
Silvia Parlagreco
Un feroce spazio delle emozioni:
Brunella Eruli e l’incontro con Tadeusz Kantor 267
Cristina Grazioli
Kantor e la sinistra italiana 287
Witold Zahorski
«i
oNoNrecitoW
itKieWicz,
iogiococoNW
itKieWicz»
K
aNtor,
l’
arte,
ilteatro,
laletteraturapolaccaTadeusz Kantor – Jerzy Grotowski – Jerzy Gurawski 303 Zbigniew Osiński
Demonismo, purezza e maternità: caratteri e forme femminili
nell’opera di Wyspiański, Witkiewicz e Kantor 313
Maria Pia Verzillo
Pensando a Kantor 323
Moni Ovadia
«UNA SORTA DI PREDECESSORE»:
KANTOR E BECKETT
Tommaso Gennaro e Luigi Marinelli*
Nella tragifarsa di Kantor, così come nelle tragifarse di Beckett –
per-ch in definitiva, malgrado tutta la diversità della visione, come non mettere a confronto questi due teatri della fine del nostro secolo – il
nascere è morire. Nella Classe morta si nasce su una poltrona da
den-tista rotta sic in realtà ginecologica TG,LM], in Fine di partita [sic!
TG,LM si muore in un secchio per i rifiuti. La nascita e la morte sono degradate, ma in tutti e due i teatri sono un’in essibile, incessante
memoria1.
Cos Jan Kott nel 1990. In questa breve dichiarazione il critico polacco ha emblematizzato fugacemente gli aspetti salienti dell’opera di Kantor e Beckett (il tema della morte e il tema dell’inestricabile intreccio di comico
e tragico), intuendo nel loro nesso un profondo punto di contatto fra i due autori.
orse sarebbero potute bastare queste ri essioni per rendere plausibile il raffronto fra due artisti per tanti versi straordinariamente affini e quasi in elettiva corrispondenza fra loro, mentre – paradossalmente – allo stato attuale degli studi, non si trovano collegamenti effettivi n nelle biografie, n – con pochissime eccezioni – nella letteratura critica che li riguarda2.
E ovviamente sarebbe bastata anche da sola l’annessione di Beckett in un luogo centrale del vortice canonico disegnato da Kantor nel celebre
testo-disegno intitolato Cafè Europe (anch’esso datato 1990, l’anno della
sua morte). Ma esiste un intervento illuminante dello stesso Kantor, che
risale all’anno precedente (ma edito postumo soltanto nel 2005), e
perlo-pi ignorato in quanto non pubblicato nei tre volumi degli scritti curati da Krzysztof Ple niarowicz3. Si tratta di un’intervista assai poco conosciuta,
rilasciata giustappunto nel 1989 da Kantor al programma radiofonico
un-gherese “Studio” e pubblicata da Nina Kiraly sedici anni dopo (in una
112
Politica dell’arte, politica della vita
era relativamente basso nel mondo), su una rivista ben poco frequentata dai teatrologi, «Polska Sztuka Ludowa. Konteksty». un testo rivelatore,
una sorta di ars poetica di Kantor medesimo4, che, come già detto, per
ragioni cronologiche non poté entrare nella raccolta delle sue opere
cu-rata da Ple niarowicz: merita dunque una lunga citazione. Ripercorrendo qui il suo percorso artistico e la creazione del “Teatro della Morte” con la conseguente, definitiva rottura con quella che ironicamente chiamava l’“ vanguardia ufficiale”, Kantor giungeva senza mezzi termini alla que
-stione che c’interessa. La data – importante ribadirlo – il fatidico 19 9,
anno non solo del crollo del muro di Berlino, ma anche della morte di
Beckett:
Dopo tante tappe, giunse il momento in cui presi a dubitare della co
-siddetta vanguardia. Tanto essa si era diffusa nel mondo – grazie a quella che chiamai “la leva di massa dell’avanguardia” – che, per quanto in passato fosse stata un fenomeno minoritario, ora d’improv
-viso era divenuta obbligatoria, se non proprio ufficiale. uello era il periodo in cui da noi, in Polonia, l’avanguardia era una corrente so -stenuta dal Ministero della Cultura. E fu allora che mi resi conto che
non si trattava pi affatto di avanguardia e che da quella comoda au
-tostrada bisognava uscire, cercando una stradina laterale secondaria.
E quella stradina laterale fu per me il Teatro della Morte. L’anno, il ’75 – e La classe morta. […]
uando si comincia a parlare della morte, si universali. E forse ancora una cosa: quando cominciai a pensare il Teatro della Morte,
il concetto di morte nella cultura teatrale europea era assolutamente impopolare. Nel 1975 si era al culmine della cultura consumistica.
Era quest’ultima a determinare la gioia di vivere: cio il consumo di tutti i beni industriali. Parlare allora di morte rappresentava un’in
-delicatezza. E si sa che sia dall’altra parte, quella del capitalismo,
come pure dalla parte del marxismo, non era lecito parlarne.
Indi-pendentemente dal fatto che tanta gente moriva. Era quasi proibito.
Ed è per questo che io ritengo ancora che il Teatro della Morte
113
«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett
queste stesse considerazioni, espresse da Kantor e ribadite da Jan Kott, nello stesso torno d’anni, accostando nuovamente Kantor e Beckett, era giunto in Italia uno spettatore assai acuto come Giovanni Raboni. Scrivendo in mortem di Kantor nel dicembre 1990, il poeta italiano ap -puntò una nota di grande interesse in Devozioni perverse, «sorta di
dia-rio» «costituito soprattutto da articoli pubblicati dall’inizio del 19 alla fine del 1991 su “Europeo” e “Corriere della Sera”»6:
8 dicembre [1990] L’anno scorso, di questi tempi, Beckett; adesso
Kantor. Dire che se ne vanno gli ultimi grandi poco se ne va la grandezza del Novecento comincia – già cominciata – un’età cul
-turale la cui funzione e la cui nobiltà non potranno consistere che nel commemorarla, la grandezza, nell’“utilizzarne” il ricordo7.
L’individuazione e l’accostamento di Kantor e Beckett quali vertici ter
-minali del secolo sarà ribadita da Raboni giusto due anni dopo, re
-censendo gli spettacoli di Les aw e Wac aw Janicki. In quel caso il critico avrebbe ripreso quell’intuizione in occasione della (a questo punto forse non proprio casuale) rappresentazione di testi beckettiani da parte dei “ge -melli di Kantor” (i quali, col tempo, misero in scena Ohio Impromptu,
Actes sans paroles I e II, Krapp’s Last Tape). In quella circostanza Raboni
avrebbe infatti scritto: «a una consanguineità fra Beckett e Kantor (nel segno, forse, di una comune riferibilità a Kafka) ho sempre creduto»8.
Inoltre, in un articolo successivo, lo stesso Raboni si sarebbe riferito alla
fisicità stranita e simmetrica, la “quotidianità” astratta, il gusto delle stilizzazioni espressionistiche e dei rallentamenti o delle frenesie da
cinema muto, che appartengono così tipicamente ai due attori e
co-stituiscono il loro particolare modo di vivere l’eredità kantoriana fin dai primi movimenti che i due compiono in scena, appaiono irresisti
-bilmente e quasi fatalmente beckettiani, come se il loro incontro con Beckett fosse stato davvero scritto nelle stelle9.
voler approfondire l’intuizione di Raboni, si potrebbe peraltro osser
114
Politica dell’arte, politica della vita
Kantor attraverso la fondamentale, ma non meno velata mediazione di Bruno Schulz. D’altronde Krzysztof Ple niarowicz ricordava come pro
-prio Kafka e Schulz fossero fra le letture giovanili di Kantor all’ ccade
-mia di Belle rti di Cracovia11. In entrambi i casi si tratterebbe dunque del
noto fenomeno di an iety o in en e descritta di Harold Bloom12. Kafka
presenziava nel novero delle letture beckettiane sin dai primi anni Trenta
Kantor, da parte sua, proprio nel momento dell’allontanamento da quella
che sarcasticamente chiamava “leva di massa dell’avanguardia” e nel ri
-avvicinamento – per una sorta di “ritorno del rimosso” artistico – a quello che chiam blokianamente il “baraccone” del simbolismo13, andava a ri
-mettere la propria creazione sotto l’egida di autori quali Maeterlinck (au
-tore peraltro vicino a Beckett), Wyspiański, Schulz e giustappunto Kafka:
Che fare con il GR N MISTERO dei piccoli drammi di Maeter
-linck oppure con gli incantesimi lanciati dal signor Wyspiański col W WEL, la C P NN DI BRONOWICE, oppure col crescente ORRORE delle soffitte di Kafka o infine con l’IMMONDE IO di Bruno Schulz 14
N possiamo evitare di rimarcare proprio qui quanto il motivo e la “figura” dell’immondezzaio siano particolarmente cari all’immaginario teatrale di Beckett (basti pensare ai bidoni di Fin de partie o alla
mon-tagna di «miscellaneous rubbish» in Breath), e quanto – per entrambi
gli artisti – esso abbia direttamente a che fare con la loro concezione dello spazio teatrale (e in genere dello spazio artistico) laddove per Kan
-tor questo espressione di quella «realtà del rango pi basso» (realno na ni sze rangi) che – per lui, ma indubitabilmente anche per Beckett – sta a fondamento dell’arte. Ne avessimo qui il dovuto tempo e modo, sarebbe forse il caso di ampliare il discorso all’interesse artistico per la varia «realtà del rango pi basso», condiviso, negli stessi anni, dal loro quasi coetaneo e a nostro avviso non meno “consanguineo” Pier Paolo Pasolini. Nel finale del cortometraggio Che cosa sono le nuvole? (1968),
115
«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett
In un bel libro dedicato ai loci communes fra tre grandi artisti del
No-vecento polacco, quali Le mian, Schulz e Kantor, rifacendosi al pensiero critico che vede nel personaggio del Chocho delle Nozze di Wyspiański
un antesignano dei manichini e di tutta la rappresentazione “deumaniz
-zata” dell’uomo nell’arte contemporanea, Wojciech Owczarski avrebbe scritto:
Nello stesso contesto dovranno comparire i nomi di artisti europei
occidentali, quali Kleist, Craig, Eliot e soprattutto Beckett, il quale
ultimo (quasi fossero bio-oggetti kantoriani) inser spesso nello sce
-nario di un immondezzaio i suoi personaggi spogliati di tutto, reificati,
concreati nella materia, cosa che lo rende particolarmente prossimo all’imagerie di Le mian (ai suoi “vecchiacci” – dziadygi, “gobbi” –
garb sy e i “dappochi” – znikomki), come a quella di Schulz (T uja,
Edzio, Dodo) e aggiungeremmo i nanerottoli semimostruosi del suo
Libro idolatrico, TG,LM] e, chiaramente, di Kantor15.
Kantor avrebbe espresso concetti non dissimili con grande chiarezza
nel fondamentale saggio l l ogo teatrale (1980), richiamandosi al suo
manifesto mballaggi del 19 :
Ecco i luoghi in cui ho collocato il mio teatro, oppure di cui
fantasticavo.
Non posso definire con esattezza che cosa essi avessero
di tanto particolare da indurmi a sceglierli.
La loro, per cos dire, “elementare” quotidianità ordinarietà
il loro abbandono
la loro nostalgia, malinconia, tristezza fuggevolezza poesia
forse miserabilità, “povertà”
Di certo in queste mie scelte avevano molto peso la predisposizione e la tensione che fin dai miei iniz avevo manifestato verso il con
-cetto di “RE LT DEL R NGO PI B SSO”, in cui, come la de
-finivo nel mio Manifesto mballaggi, l’oggetto rivela la sua essenza
116
Politica dell’arte, politica della vita
Non c’è modo qui di approfondire temi di tanta portata, ma forse si
dovrà almeno sottolineare come l’idea kantoriana di «realtà del rango pi basso» riguardi direttamente la sua visione dell’essere umano in quanto oggetto e non pi soggetto della Storia (si pensi qui alla centralità del manichino, nonch in seguito alla sua stessa nozione di bio-oggetto, intro -dotta nel saggio l l ogo teatrale). fronte di un ormai ineluttabile «di
-sprezzo dell’artista verso la storia universale’ e ufficiale» (cos Kantor
in Salvare dall’oblio)17, e nell’attesa di un impossibile ritorno di Odisseo
o dell’arrivo di Godot, la condizione dell’uomo perde ogni connotazione
eroica per ridursi alla sua più semplice, mera e spesso non poco ridicola
essenza materica (a proposito del tema dell’attesa opportuno qui ricorda
-re l’osservazione di nna Krajewska sulla possibile comune ascendenza
maeterlinckiana in Beckett e in Kantor, con particolare riferimento alla
orte di intagiles)18. In entrambi gli artisti un simile processo di ridu
-zione e svilimento (del senso) della vita umana, non solo non implica un qualsivoglia giudizio di valore o pessimismo, bens si qualifica come la sua pi veridica rappresentazione dopo le atrocità e i deliri della Seconda Guerra Mondiale e della Shoah, in quanto unica possibile “celebrazione” di ci che resta dell’umano. Per riferirci a rancesco Orlando, come se l’individuo fosse diventato l’«oggetto desueto» dell’umanità e, per sined
-doche, il corpo – l’«oggetto desueto» dell’umano19.
uello che a questo punto unisce l’artista polacco con Beckett, lberto Giacometti, Primo Levi, rancis Bacon e altri, ci che nella succitata in
-tervista del 19 9, lo stesso Kantor riconobbe a proposito del suo immettersi su un sentiero già battuto dall’autore di Godot (vale a dire il percorso che
dal “Teatro ero” lo avrebbe portato al “Teatro della Morte”) e che risulta come una dichiarazione di poetica nella quale Beckett, senza mezzi termi
-ni, viene eccezionalmente riconosciuto come «una sorta di predecessore»:
Nel 19 3 inizia una nuova tappa, che chiamai “Teatro ero”. Si trat
-tava di un’altra pièce di Witkiewicz, Il pazzo e la monaca. Il Teatro
ero risult dall’idea e dalle mie ri essioni su quali fossero i mezzi di
espressione artistica da usare per portare ai minimi termini, sminuire,
ridurre sotto zero tutte quelle manifestazioni della condizione uma
117
«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett
n seg ito mi resi onto e a e o na sorta di rede essore o ero -sia che anche quello che aveva fatto Beckett si collocava al di sotto dello zero della condizione umana, ma questa cosa non m’intimorì affatto20.
I processi di “despoliazione”, “degradazione”, “riduzione ai minimi termini” e alla fin fine “deumanizzazione” dei personaggi – quello che, sulla scorta di ndrzej alkiewicz, Jan Kott definiva l’esito di «una cipolla che viene sbucciata. Si toglie il primo velo, poi il secondo, poi man mano tutti gli altri involucri. Dove finisce la cipolla, e cosa c’ nel mezzo »21 (e che Beckett, in un contesto diversissimo, avrebbe de
-finito analogamente la ricerca dell’«ideal core of the onion»)22 – hanno
dunque a che fare con il problema dell’identità umana, della quale, al
centro dell’espressione artistica di Beckett e Kantor (ma con loro di
tutta una schiera di artisti del secondo Novecento), non pu rimanere che un nucleo, disperatamente insopprimibile. Ne risulta cos l’uma
-nissimo, quanto forse vano bisogno di preservare – nonostante tutto – almeno quel nucleo, l’«inannullabile minimo» (l’unnullable least) di Beckett23 e la
Piccola, Povera, Indifesa,
ma stupenda Storia della vita
umana individuale
ovvero
i miseri brandelli della […] vita individuale
divenuti
l’objet prêt
118
Politica dell’arte, politica della vita
salvare dalla distruzione e dall’oblio. Salvare da tutte
le “potenze” del mondo. Persino nella consapevolezza del fallimento.
(T.. Kantor, Pisma, vol III, rispettivamente pp. 12 , 130, 12 )
«Praticamente io non sono mai stato un astrattista», dirà Kantor in una conversazione con Por bski: «la figura umana era per me straordinaria
-mente importante. […] esta g ra mana stata om romessa, noi
non avremmo pi potuto crearla secondo il canone umanistico, antico, quello della bellezza del corpo il motivo era l’occupazione e la deu-manizzazione nazista»24. uesta dichiarazione si rispecchia con sconcer
-tante conformità in alcune parole scritte da Beckett subito dopo la guerra a proposito di Saint-L , cittadina della Normandia occupata dai nazisti il 1 giugno 19 0, bombardata e rasa al suolo dagli lleati la notte del
giugno 194425. Su «la capitale des ruines» (come la chiamavano gli stessi
francesi), nel 19 Beckett scrisse un reportage per Radio ireann dal tito -lo, appunto, The Capital of the Ruins, dal quale s’intuisce come gli eventi
bellici – similmente a quanto espresso da Kantor – abbiano scatenato in lui il ripensamento nitido e disincantato della condizione umana post-bellica:
Saint-L was bombed out of e istence in one night . “Provisional” is not the term it was, in this universe become provisonial. It will con -tinue to discharge its function long after the Irish are gone and their
119
«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett
Dalla conclusione di questo testo possono desumersi buona parte delle ragioni che nell’estate del 19 5 avevano spinto lo scrittore irlandese alla sua celebre «rivelazione», svolta risolutiva che lo port a mutare radical -mente stile e lingua27: si tratta di una «scelta di campo, emotiva ed etica,
di un autore che ha deciso di ricominciare a prendere la parola dalla
“capi-tale delle rovine”, anzi di “interiorizzare” queste rovine e farne la propria lingua»28. Direttamente o indirettamente, i bio-oggetti di Kantor e alcuni
oggetti fetticcio del teatro di Beckett hanno a che fare con tutto questo,
cio con l’azzeramento e la reificazione del corpo umano29.
Da questo punto di vista, anche la concezione kantoriana dei cosiddetti bio-oggetti (intesi non come «accessori di cui si servono gli attori, non “decorazioni” sceniche in cui si “recita” ma formanti con gli attori un tutto inscindibile»)30, potrebbe essere confrontata con alcuni elementi
che nelle opere di Beckett costituiscono una figura unitaria con il corpo dell’attore. In Kantor: la bara, la vasca da bagno, lo zaino, l’armadio, la «macchina funeraria», il carretto dell’immondizia, la «macchina di an
-nientamento», i banchi scolastici. In Beckett: l’armadio di Malone, le giare
dell’Innommanable e di Play, i bidoni dell’immondizia di Nagg e Nell, il
terreno nel quale affonda Winnie, il sacco di Comment c’est.
Per entrambi vale la descrizione kantoriana secondo cui «gli attori da quegli oggetti erano condizionati, i loro ruoli e le loro attività si dipartiva
-no da ess i » (si pensi anche all’imbracatura di Billie Whitelaw per imper -sonare Mouth di Not I come pure, nella rappresentazione di Nel piccolo maniero del Teatro Informale del 1961, agli «attori, appesi a mostruose
grucce come vestiti, che ciondolando porta va no avanti i loro indecifra
-bili dialoghi. Oppure, mescolati con fagotti e sacchi, si assimila va no a questa infima categoria di oggetti, perdendo la propria dignità individua
-le, ricadendo al fondo limite del raziocinio»)31.
Andando alla ricerca di ulteriori elementi comuni fra le poetiche dei
due artisti, si dovrà perlomeno ri ettere sulle modalità di ideazione e composizione della struttura dell’opera teatrale: i momenti essenziali in tal senso per la costruzione di un organismo scenico perfettamente fun
-120
Politica dell’arte, politica della vita
fine, la messa in moto o dinamicizzazione di quella stessa immagine. l termine poi di questi tre momenti, in molti casi la ripetizione di quanto fin l rappresentato, che costituisce di fatto quel «sistema a replica inclusa» di
cui ha parlato opportunamente Frasca32.
Per quanto riguarda il metodo teatrale di Kantor, pittore e scenogra
-fo ancor prima che regista e autore teatrale, si potrebbero quasi ripetere senza variazione le stesse considerazioni in entrambi l’imagery teatrale
nasce molto spesso da una suggestione iconografica (Noel Witts, partendo da questo presupposto, arriva addirittura a chiedersi se i due non si fossero mai incontrati, dacch entrambi costruiscono in modo simile una serie di performance essenzialmente basate «su singole immagini visive»)33. Basti
pensare all’importanza della fotografia e del tableau vivant nell’estetica,
poetica e modalità compositive kantoriane, nonch a quel principio della ripetizione al quale lo stesso Kantor avrebbe dedicato un saggio fonda
-mentale nel 19 9: «la ripetizione il nocciolo dell’arte»34 e ancora:
«la ripetizione sottrae alla realtà la sua funzione vitale, il suo significato vitale, la forza dell’attività pratica di vita. In seguito a tale operazione la realtà diviene impotente e infruttuosa ai fini della vita pratica, ma in tal modo acquista una forza colossale nel pensiero, nell’immaginazione, cio nella sfera che decide della dinamica della vita umana e del suo S ILUP
-PO»35. Giustamente dunque nna Krajewska sostiene che «la ripetizione
come genere di esperienza del mondo apparenta Kantor con Beckett»36;
cos pure ndrzej Matynia, parlando della misurazione del tempo nel tea
-tro di entrambi gli autori, accosta l’uso ripetitivo del nas-tro magnetofonico
in Krapp’s last tape di Beckett e il metodo della «ripetizione e ritorni del
-la stessa sequenza di cui Tadeusz Kantor fece uso fin dagli inizi del Cricot 2»37. E, ancora, Georges Banu assimila all’opera di Beckett e Giacometti
le variazioni sullo stesso tema che costituiscono il nucleo creativo degli
ultimi spettacoli di Kantor, apparentandoli in un’unica “famiglia” che
de-finisce la «famiglia dei prigionieri del frammento»38.
Difficile non pensare a questo punto a due luoghi cruciali nei capola
-vori di Kantor e Beckett, laddove, in entrambe le situazioni, e non a caso nei finali, nella Classe morta «tutti ripetono i gesti interrotti, i discorsi
che non concluderanno mai, in essi per sempre imprigionati»39; mentre in
En attendant Godot tutto si prepara a essere ripetuto, un nuovo giorno, un
-121
«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett
mente quello del primo («Estragon – lors, on y va | ladimir – llons-y. | Ils ne bougent pas»)40.
questo punto occorrerebbe chiedersi quali siano – assieme a questo fondamentale principio costruttore – altri temi, figure, accessori e luoghi
comuni nell’immaginario dei due artisti – alla ricerca di una sorta di
“at-mosfera condivisa” da due ben diverse spiritualità poetiche e biografie artistiche, caratterizzate per , si visto, da un’intima consanguineità.
Cercando di riepilogare ciò che in questa sede non è stato neanche
pos-sibile riassumere, occorrerebbe forse portare alcuni esempi concreti di quei temi, accessori e immagini comuni ai due autori. uesti infatti co
-stituiscono tanto un immaginario condiviso, quanto il bacino figurale e figurativo dal quale attingono entrambi per la composizione vuoi di scene e situazioni delle loro singole opere, vuoi soprattutto per l’esplicitazione
della loro ideologia poetica tout court. Allo stato attuale della
presen-te ricerca possibile individuare quello che non potrà essere pi di un semplice elenco, suddividendolo in tre sottoinsiemi caratterizzanti rispet
-tivamente: il piano tematico, quello figurativo e quello pi generalmente speculativo ed estetico-poetico.
ra i temi comuni ricorrenti, dovremo quindi sottolineare innanzitutto la semiosfera della vecchiaia con i suoi corollari fisici ed esistenziali: la memoria intesa come meccanismo inconscio di doloroso e impossibile recupero del tempo perduto la sterilità come condizione inevitabile del
-la decadenza anche sessuale del-la vitalità del corpo umano -la pluralità dell’io morente in quanto “ricettacolo”, nella sua visione panoramica, del
-le varie età, esperienze e maschere della condizione umana lo stato sog
-gettivo e og-gettivo di avvicinamento alla morte, «stazione penultima»41
nell’attesa del progressivo approssimarsi a uno zero che Beckett chiamava «inannullabile minimo» e Kantor, nel Manifesto del Teatro Zero, definiva
«forme di nientificazione», tese a «livellare, annientare fenomeni, av
-venimenti, accidenti, togliergli la pesantezza della quotidianità, permettere di trasformarli in una materia scenica libera di assumere qualsiasi forma»42.
caratterizzare invece la rappresentazione della figura umana, po
-tremmo parlare, in entrambi i casi, di bio-oggetti comuni, quali la bom
122
Politica dell’arte, politica della vita
Tutto ci nel contesto di una generale clownerie della rappresentazione
dell’umano, per cui l’elemento circense del doppio comico e del personag-gio da slapstick comedy risulta particolarmente caro all’immaginario fi
-gurativo e poetico di entrambi. Sempre a proposito della rappresentazione dell’umano, risulta alquanto evidente il parallelismo che si instaura fra le visioni dell’umanità povera, degradata, fallimentare e fallita, della quale la figura del clochard l’emblema pi caratterizzante.
In Kantor il clochard il rappresentante della «realtà del rango pi bas
-so», e quindi dello spaesamento e straniamento che l’arte introduce nella realtà. Ne la riprova una testimonianza dello stesso artista polacco che ricorda di come, sul finire degli anni Sessanta, fece partecipare un vero
clochard a uno dei suoi happening: «Nel 19 , nel mio happening intito
-lato ommage aria Jarema, nel solito assembramento di spettatori da
vernissage, introdussi un clochard, ubriacone, coi vestiti infangati, sudicio, intriso di sudore e non rasato, che si guadagnava da vivere trasportando pacchi per le vie e le piazze della città, mentre qui, tutto tranquillo e per l’intera durata dell’evento, se ne stette a segare assi di legno »44. Inoltre
la fascinazione di Kantor per la «realtà del rango pi basso» dei clochard
emerge dalla partitura di Wielopole Wielopole e nel saggio l l ogo tea -trale, a proposito della collocazione spaziale dello spettacolo Gallinella Acquatica (Edimburgo, 19 ), di poco successivo all’happening
Homma-ge a aria Jarema e appartenente alla fase del cosidetto “Teatro Infor-male”.
OSPI IO DEI PO ERI
quasi un immondezzaio con dei ruderi di letti, come dei relitti del
-le primitive officine del lavoro coatto, un po’ asilo, un po’ prigione, sfasciume, pareti che crollano in questo interno si svolgevano gli eventi di Gallinella acquatica di Witkiewicz. Una truppa di CLO
-C RD, di mbulanti, Eterni Erranti, agabondi, sosteneva i ruoli dei decadenti Conti, Cardinali, Banchieri, Smancerosi rtisti, Pedera
-sti, lacch , ladies inglesi, libertini e debosciati 45
Beckett, da par suo, tanto nella prosa quanto nel teatro, identifica nel
clochard il protagonista di quella «humanity in ruins» rappresentativa
123
«Una sorta di predecessore»: Kantor e Beckett
ragment de t tre, ecc.) vagabondi e derelitti sono elevati al rango di protagonisti non solo della finzione scenica, bens della vita.
Per Kantor in particolare, in questa stessa problematica, rientra ovvia
-mente anche la presenza ricorrente dei manichini sulla scena, che nel tem
-po assumono vari significati e connotazioni estetiche e strettamente tea
-trali, dalla funzione di «organo supplementare dell’attore»46 fino a diven
-tare «un modello attraverso il quale passa il sentimento vivo della morte e della condizione dei morti. Un modello per l’attore vivo»47. Per Beckett,
invece, fra i due elementi della coppia scenica si instaura un rapporto sim
-biotico, tale da costituire quello che lui stesso definiva «pseudo-couple»48.
Cos pure si potrebbe dire, in generale, per il tema del fallimento, che ci sembra altrettanto centrale nella poetica dei due artisti: si pensi al già
citato monito di Salvare dall’oblio: «Persino nella consapevolezza del fallimento», o al concetto di «non eseguibilità» o «eseguibilità non riusci
-ta» espresso da Kantor nei Testi autonomi di Wielopole Wielopole49. Non
dissimilmente in Beckett il fallimento rappresenta con il passare del tem-po il risultato di un inappagato work in regress, ovvero la ricerca di una
perenne ulteriorità alla quale arrivare sottraendo, e quindi l’esito naturale della sua ricerca artistica: « ll of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. ail again. ail better»50.
Da ultimo, quale elemento essenziale per la creazione pittorica e tea
-trale, lo spazio, che condivide in entrambi i casi non solo il fondamentale principio di costruzione a partire da uno spunto visivo – immagine me
-moriale, quadro o fotografia che sia – ma privilegia alcuni elementi che in entrambi i casi assumono un potente valore simbolico e pertengono alla dimensione pi intima e familiare dello spazio umano: quello della stanza51. ui assume grande rilievo la presenza costitutiva della finestra e
della porta, proiezioni al tempo steso tangibili e astratte del rapporto con l’esterno e l’esteriorità, e dell’armadio quale metafora del deposito memo
-riale al quale attingere nonch ingresso nascondiglio della dimensione pi intima della memoria individuale. In tal modo, la stanza – la kantoriana «stanza dell’infanzia»52, la «povera stanza dell’immaginazione» – diventa
lo spazio quintessenziale della creazione teatrale di entrambi, luogo della memoria morente che a intermittenze rivive sulla scena di un’infinita atte
124
Politica dell’arte, politica della vita
call your mind»53 (del personaggio quanto dell’autore e quindi del lettore),
e che similmente per Kantor «non pu essere una stanza vera perch deve essere la stanza della MEMORI , del RICORDO, che rimettiamo sempre a posto e continuamente muore. Che “pulsa”. Perch tale la
struttura reale del ricordo »54.
Stante dunque la possibile costituzione fra i due autori di quello che Corrado Bologna ha definito un «paradigma di compatibilità»55 sul
pia-no storico-logico e documentario (e, aggiungeremmo, finanche affettivo), che sembrerebbe – se non dimostrato – almeno altamente dimostrabile in base alle considerazioni e convergenze qui indicate, si potrebbe prov
-visoriamente concludere sostenendo che il dialogo a distanza, fors’anche ravvicinata, fra Kantor e Beckett sia assai pi significativo e ricco di im
-plicazioni di quanto non si sia sospettato e indagato fino ad oggi.
Pur col beneficio di inventario che deriva dalla ricostruzione e studio approfondito dei rispettivi archivi (ancora molto avvenire) – pensiamo in particolare all’epistolario di entrambi dagli anni ’ 0 in poi e alle possibili letture condivise – si potrebbe perfino azzardare l’ipotesi che il paralleli
-smo già da alcuni suggerito fin dalla metà degli anni ’ 0, sia ben pi che frutto di fortuita analogia o comunanza di intenti e visioni artistiche, ma derivi da un contatto diretto (dichiarato o meno, unidirezionale o biunivo
341
Note
45 Konstr ktywizm w teatrze [Il costruttivismo a teatro], o it. 46 T. Kantor, isma [Scritti], t. 2, o cit., p. 03.
47 ll’inizio degli anni Ottanta, Kantor ha ordinato la traduzione di un lungo articolo monografico sul Revisore di Mejerhol’d di Béatrice Picon-Vallin. L’autrice, utilizzando ricche fonti russe, ha ricostruito lo spettacolo, descrivendo nel dettaglio il lavoro com-piuto su di esso e la ricezione. Grazie al testo di Picon-Vallin Kantor ha potuto cono-scere l’analisi dettagliata della partitura musicale nel Revisore, definita da Mejerhol’d «realismo musicale». Vedi: B. Picon-Vallin, e e izor de ogol-Meyerhold, in: Les voies de la création théâtrale 7, Mises en s ne ann es et , raccolte e presentate da D. Bablet, ditions du Centre national de la recherche scientifique, Paris, 19 9. 48 T. Kantor, isma [Scritti], t. 3, op. cit., p. 335.
49 Ibidem, t. 1. p. 168. 50 Ibidem, p. 183. 51 Ibidem, p. 187.
52 Konstr ktywizm w teatrze [Il costruttivismo a teatro], o it.
53 A. Turowski, wangardowe marginesy [Margini d’avanguardia], Instytut Kultury, Warszawa 1998, p. 12.
54 Konstr ktywizm w teatrze [Il costruttivismo a teatro], o cit. 55 Ibidem.
Tommaso Gennaro e Luigi Marinelli, «Una sorta di predecessore»:
Kantor e e kett
* Il presente contributo è stato scritto in stretta collaborazione, ma sono da attribuire in particolare a Tommaso Gennaro le prime 9 pagine (e relative note fino alla n. 31) e a Luigi Marinelli le ultime pagine (e relative note, da n. 32 a 54). I due autori si ringraziano a vicenda per la proficua occasione di scambio intellettuale.
1 J. Kott, Kaddis agine s ade sz Kantor, P. Marchesani, a cura di, Scheiwiller, Milano 2001, pp. 32-33.
2 Sembrerebbe che l’unico intervento esplicitamente dedicato al tema per noi qui cen-trale sia una conferenza di Daniel Watt, bi i il ales bi i il elis e kett
Kantor and t e o erty o eing, che però non è mai stata pubblicata.
3 Cfr. T. Kantor, isma, red K. Ple niarowicz, 3 voll., Ossolineum-Cricoteca, Wroc aw-Krak w 200 -2005.
4 N. Kiraly, Ars poetica Tadeusza Kantora, in Konteksty, I (2005), pp. - 3.
5 T. Kantor, wi wten zas o mier i by o nietaktem zt ka est bliska mier i [ arlare allora della morte era n indeli atezza arte rossima alla morte], in «Polska Sztuka Ludowa. Konteksty», LI n. 1, 2 (2005), pp. - , qui a p. (traduzione di LM, corsivo nostro).
342 Politica dell’arte, politica della vita
7 Ivi, p. 910, e si vedano le pp. 910-911 per il ricordo su Kantor alle pp. 90- 91, datate 22 dicembre 1989, le considerazioni in mortem di Beckett.
8 Id., gemelli nati da e kett, in «Corriere della Sera», 29 gennaio 1992, p. 25. Il nome di Kafka è spesso citato da Raboni accanto a quello di Beckett: cfr. Id., oesia degli anni Sessanta, in Id., L’opera poetica cit., pp. 299, 30 -9 ma anche Id., Bipolarità
di atta 1990 , in a oesia e si a rona a e storia del o e ento oeti o italiano , . Cortellessa, a cura di, Garzanti, Milano 2005, pp. 2 9-2 , articolo inaugurato nel nome di «Beckett, con Kafka sullo sfondo» (p. 2 0) e sigillato facendo «i nomi di alcuni dei più severi e radicali testimoni “fantastici” del nostro tempo, da Kafka a Beckett» (p. 287). L’amore di Raboni per Kantor è d’altronde di-mostrato dai suoi numerosi articoli e dalle sue introduzioni a volumi kantoriani. A quadrare il triangolo, fra Kantor, Beckett e Raboni occorrerebbe poi inscrivere la compagna di quest’ultimo, Patrizia Valduga, la quale tradusse sia Beckett che Kantor, e almeno indirettamente avrà potuto mediare la visione raboniana di entrambi gli autori, l’irlandese e il polacco (nella fattispecie, Valduga tradusse i Corsi di Avignone e l’ultimo testo teatrale in vita di Kantor, Ô Douce Nuit: T. Kantor, tille a t corsi di Avignone, trad. it. P. Valduga, Ubulibri, Milano 1991; e di Beckett invece En
attendant odot).
9 G. Raboni, s ettando Kantor s bito e kett, «Corriere della Sera», 12 novembre 1992, p. 32.
10 «Je m’y suis senti chez moi, trop» avrebbe detto di Kafka, schernendosi, Beckett ad
Hans Neumann in una lettera del 17 febbraio 1954 ( e etters o am el e kett , edited by G. Craig, M.D. ehsenfeld, D. Gunn and L.M. Overbeck, Cambridge University Press, Cambridge 2011, p. 2).
11 K. Ple niarowicz, Kantor rtysta koń a wiek , Wydawnictwo Dolno l skie, figura nel tappeto» (inverno 200 ), pp. 19-3 a proposito di Beckett cfr. G. rasca, Lo
s o olatoio e kett on ante e antor, Edizioni d’if, Napoli 201 , n. 1 pp. 33 -338 (si tratta ovviamente di Georg Cantor, il matematico tedesco).
13 Si noti che subito prima della guerra, assieme alla sua fidanzata di allora, Wanda Baczyńska, Kantor aveva tradotto dal russo in polacco il testo del alagan ik (Il ba-raccone dei saltimbanchi) di leksandr Blok (cfr. K. Ple niarowicz, Kantor rysta
343
Note
l’anima, Titivillus, San Miniato 2010, pp. 212-213, si dovrà ricordare anche a questo proposito il bizzarro trattato La mort (Paris, Charpentier 1925) dello stesso Maurice Maeterlinck.
14 T. Kantor, Tra la santa astrazione e lo scomunicato simbolismo [1938], in Id., isma, vol. I, etamor ozy eksty o lata , K. Ple niarowicz, a cura di, Ossolineum, Weoc aw 2005, p. (trad. it. LM). Lo stesso Owczarski d’altronde si spingeva a ricercare
un parallelo diretto Beckett-Schulz, giungendo ad affermare che nella sua riduzione dei propri personaggi ai minimi termini, Beckett sembrasse quasi «assolutamente memo-re» dei postulati del Trattato dei manichini di Schulz (p. 22). Beckett, semmai, pensava presumibilmente al Teatro delle marionette di Kleist (cfr. J. Knowlson and J. Pilling,
res oes o t e k ll e ater rose and rama o am el e kett, Grove Press, New ork 19 0, pp. 2 5-2 5), che, per Owczarski, Kantor non tiene presente (W. Owczarski,
ie s a ws lne mie s a w asne cit., p. 43 e, su Beckett, ivi, pp. 10 e 22-25). 15 Ivi, p. 10.
16 T. Kantor, Il luogo teatrale, in Id., ielo ole ielo ole, trad. it. L. Marinelli, Ubulibri, Milano 1981, p. 166 (traduzione qui lievemente rivista, LM).
17 «Pogarda (moja) dla istorii “powszechnej” i oficjalnej» (T. Kantor, O ali rzed zapomnieniem, in Id., isma cit., III, pp. 125-130, qui a p. 12 , traduzione LM).
18 «L’esperienza dell’attesa», secondo Anna Krajewska, «non l’ha inventata Beckett, ma l’autore della Morte di Tintagiles, la cui opera Kantor realizzò due volte, nel 1938 per ritornarci nel 1987 chiamando lo spettacolo La macchina dell’amore e della morte» (A. Krajewska, ramat i teatr abs rd w ols e, Wyd. Nauk. U M, Posnań 199 , p. 219, traduzione LM).
19 Il riferimento ovviamente a . Orlando, li oggetti des eti nelle immagini della let
-terat ra o ine reli ie rarit roba ia l og i inabitati e tesori nas osti, nuova edizione riveduta e ampliata L. Pellegrini, a cura di, Einaudi, Torino 2015.
20 T. Kantor, wi wten zas o mier i by o nietaktem cit., p. 85 (trad. it. LM, corsivo nostro).
21 Cfr. I. Kott, e ear o ero Finale di partita, in Id., akes eare nostro ontem -poraneo, prefazione di M. Praz, trad. it. V. Petrelli, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 92-128, p. 116, che cita A. Falkiewicz, ks eryment teatralny lat i dziesi ty (3), in «Dialog», 9 (1959), pp. 105-11 .
344
LM). Renato Palazzi a questo
proposito sottolinea negli happening e nel teatro di Kantor «l’infinita serie di ag -ghiaccianti meccanismi a mezza via tra strumenti ospedalieri, macchine di tortura e mostruosi attrezzi quotidiani: tavoli anatomici che diventano ghigliottine, barelle che allungano a dismisura i corpi stesi su di esse, spropositati tritacarne» (R. Palazzi, La materia e l’anima cit., p. 215, corsivo nostro).
25 In questo paese lo scrittore irlandese si recò come volontario della Croce Rossa per lavorare, tra l’agosto e l’ottobre del 1945, quale interprete, magazziniere e autista d’ambulanza (si tratta per Beckett dell’estremo vertice di una guerra nella quale egli aveva già preso parte perdendo il suo amico e compagno della Resistenza francese Alfred Péron in una retata nazista).
26 S. Beckett, The Capital of the Ruins, in Id., e om lete ort rose , edited and with an introduction and notes by S.E. Gontarski, Grove Press, New York 1995, pp. 275-278, cit. a pp. 277-278 (corsivi nostri).
27 Per cui si veda D. Gribben, e kett s Ot er e elation e a ital o t e ins, in «Irish University Review», III, 2 (200 ), pp. 2 3-2 3.
28 G. Frasca, Introduzione a S. Beckett, Le poesie, G. Frasca, a cura di, Einaudi, Torino 2002, pp. -L , qui a p. I .
29 La guerra cioè si caratterizza come una scoperta che non può non passare per la trasformazione e la menomazione, lo smembramento dei corpi, la loro riduzione ai minimi termini, «a ogni costo», «al prezzo di dolore, sofferenza, disperazione e poi di vergogna, umiliazione derisione» (T. Kantor, O ali rzed za omnieniem, in isma cit., III, p. 128 e p. 129, trad. it. LM). E si noti già in Le mian, morto nel 193 ,
ben prima degli orrori più atroci della guerra, la poesia i nia [La visciola] racconta di una bocca che rimane senza persona, e giustamente dzis aw apiński scorge nel «processo […] di alienazione degli organi del nostro corpo, come se la coscienza si ri-fugiasse nei nostri occhi, mani e labbra, ultimo bastione dell’esistenza» ( . apiński,
eta zyka e miana, in t dia o e mianie, red M. G owiński e J. S awiński, Piw, Warszawa 1971, p. 46); proprio come sarà nel Beckett di Not I (1972).
345
Note
38 G. Banu, z owiek sto y na bo z i ego antomy, in ommage ade sz Kantor cit., p. 199 (trad. it. LM).
39 T. Kantor, La classe morta, p. 210. Secondo Marek K dzierski, Konstanty Puzyna ha riconosciuto «in Tadeusz Kantor’s Dead Class the same effort “to expose the breach”, the gap of memory which also animates Beckett’s world: “the old cronies, evoking their past around the time Gavrilo Princip shot the Archduke Ferdinand, end up not in a nostalgic mood but in showing us the gap”. And this represents the “deepest and most originally implemented Beckettian technique to be seen outside the stagings of Beckett’s own texts”. According to the Polish critic, the biggest surprise in store for us in Dead Class is that “it o ld be almost entirely deri ed rom e kett s work
although the word Beckett is not uttered a single time”» (M. K dzierski, Samuel
e kett and oland, in e nternational e e tion o am el e kett, edited by M. Ni on and M. eldman, Continuum, London 2009, pp. 1 3-1 : p. 1 2 (corsivo nostro), che cita e traduce K. Puzyna, mrok, PIW, Warszawa 19 2, pp. 110-111). 0 S. Beckett, n attendant odot 1953 , Minuit, Paris 2009, pp. 0 e 12 .
41 Cfr. A. Cortellessa, ango il mondo e kett e eo ardi, in egole dal ielo a
letterat ra italiana nell o era di e kett, G. Alfano e A. Cortellessa, a cura di, Edup, Roma 200 , pp. 111-20, a p. 119.
Marinelli, Scheiwiller, Milano 2003, p. 2 . 45 Id., Il luogo teatrale cit., p. 166. silenzi del testo, tti del LIII Convegno Interuniversitario (Bressanone, 9-12 luglio 2015), . Barbieri e E. Gregori, a cura di, Esedra, Padova 201 , pp. 299-312. 55 Cfr. C. Bologna, Un’ipotesi sulla ricezione del De vulgari eloquentia: il codice
Lithos Editrice
Laura Quercioli Mincer (Università di Genova) Barbara Ronchetti (“Sapienza” Università di Roma)
Credo da tempo che, se una speranza ancora esiste per il continente europeo,
essa si celi nelle potenzialità, artificialmente inibite, dei paesi compresi tra la
Germania e la Russia, in quella seconda o altra Europa che, ormai da qualche decennio, non guarda più alla prima con devota ammirazione.
Czesław Miłosz
Questa collana intende rappresentare uno spazio aperto a ricerche e testi di analisi, traduzione e divulgazione, concernenti in particolare la cultura e la let-teratura dell’Europa centro-orientale. Un’attenzione speciale viene riservata ai fenomeni di interculturalità e interrelazione letteraria col cosiddetto “Occiden-te”, area del mondo che nel nome sembra quasi contenere la sicura prescienza di una fine da sempre sfuggita, e che nello scontro-incontro con l’Altro da sé ha da sempre tratto nuova linfa e il senso stesso della propria continuazione. Pur coltivando interesse (etimologicamente “l’essere fra”) anche per aree “maggiori”, ma non sempre conosciute e comprese appieno nella loro com-plessità e molteplicità, come ad esempio quella russa, leo non nasconde così
un’espressa attrazione per certi temi di lettura che, altrimenti, potrebbero risultare trascurati o negletti nel contesto di quel sommario “hic sunt le-ones”, ancora troppo spesso distintivo di certa cartografia culturale, non solo italiana.
La collana prevede due diversi formati e, a seconda del contenuto, tre sezio-ni (“studi e letture”, “testi e traduziosezio-ni”, “miscellanea”): per la pubblicazio-ne ciascun volume viepubblicazio-ne sottoposto a revisiopubblicazio-ne paritaria.
Inoltre, rientrando a pieno titolo e per numerazione progressiva in questo progetto editoriale, ma con una distinta veste grafica, la serie “leo ~ lettera
volumi pubblicati:
1. Luigi Marinelli, Tra Oriente europeo e Occidente slavo. Russia e Polonia, studi e
letture, 2008, pp. 127
2. Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti. Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, studi e letture, 2010, pp. 318
3. Marian Pankowski, C’era e non c’era una volta un’ebrea, a cura di Laura Quercioli
Mincer, illustrazioni di Marco Mucha, con una nota introduttiva di Erri De Luca, testi e traduzioni, 2010, pp. 74
4. Bożena Keff, Madre, Patria, cura e traduzione di Laura Quercioli Mincer, con una
nota introduttiva di Luigi Marinelli, e un’intervista a Katarzyna Bielas, testi e tra-duzioni, 2011, pp. 114
5. Edward Balcerzan, Bogusława Latawiec, Il tempo raddoppiato, a cura di
An-drea Ceccherelli e Lorenzo Costantino, con una nota introduttiva di Jarosław Mikołajewski, testi e traduzioni, 2011, pp. 156
6. AAVV, Nel mondo di Gogol’. В мире Гоголя, progetto a cura di Rita Giuliani, cura
dell’edizione a stampa di Lorenzo Costantino, miscellanea, 2012, pp. 434
7. Andrea De Camillis, Łukasz Kurembski, «Il libro degli eventi». Calendario di storia e
cultura polacca, con una nota introduttiva di Luigi Marinelli, studi e letture, 2012,
pp. 238
8. Maria Grazia Bartolini, “Nello stretto triangolo della notte...”. Jurij Tarnavs’kyj, il
Gruppo di New York e la poesia della Diaspora ucraina negli USA, studi e letture,
2012, pp. 234
9. Lorenzo Costantino, Necessità e poetica. Profilo della traduttologia polacca con
-temporanea, studi e letture, 2012, pp. 242
10. Roberto Valle, Genealogia della russofobia. Custine, Donoso Cortés e il dispotismo
russo, studi e letture, 2012, pp. 174
11. Roberta De Giorgi, L’amico di Tolstoj. Vladimir G. Čertkov: profilo critico e biblio
-grafico, studi e letture, 2012, pp. 146
12. Maria Bidovec, Profilo della letteratura slovena dal 1989 a oggi. Schede sugli
scrit-tori, leo ~ letterature, 2012, pp. 286
13. Danilo Cavaion, Dalla Senna alla Neva. La Carmen di Aleksandr Blok, studi e lettu
-re, 2013, pp. 154
14. Henryk Grynberg, La vittoria, con una nota introduttiva di Włodek Goldkorn,
15. Jurij Mann, La poetica di Gogol’, a cura di Cinzia De Lotto, studi e letture, 2014,
pp. 494
16. Ivan Štrpka, La Mano silenziosa. Dieci Elegie, a cura di Alessandra Mura, con una
nota introduttiva di Riccardo Duranti, testi e traduzioni, 2014, pp. 176
17. Cinzia Franchi, L’arancia ungherese. La letteratura in Ungheria negli anni
Cinquan-ta, studi e letture, 2014, pp. 212
18. AAVV, La Russia sognata. Studi in memoria di Giorgio Maria Nicolai, a cura di Silvia
Toscano, miscellanea, 2014, pp. 320
19. Claudia Olivieri, Cinema russo da oggi a ieri, studi e letture, 2015, pp. 308
20. Kazimir Malevič, Poesia, cura e traduzione di Anna Belozorovitch, testi e
tradu-zioni, 2015, pp. 200
21. Il gladiatore e la rusalka. Roma nella poesia russa dell’800. Antologia con testo rus -so a fronte, progetto di Rita Giuliani, a cura di Rita Giuliani e Paola Buoncristiano,
testi e traduzioni, 2015, pp. 504
22. Carla Maria Solivetti, Strategie narrative in Gogol’. Saggi, a cura di Lena Szilárd,
Rita Giuliani, Maria Carella e Laura Piccolo, studi e letture, 2015, pp. 288 23. Barbara Ronchetti, Dalla steppa al cosmo e ritorno. Letteratura e spazio nel
Nove-cento russo, studi e letture, 2016, pp. 300
24. Editoria e traduzione. Focus sulle lingue ‘di minore diffusione’, a cura di Cinzia Franchi, miscellanea, 2017, pp. 398
25. Politica dell’arte, politica della vita: Tadeusz Kantor fra teatro, arti visive e lettera
-tura, a cura di Luigi Marinelli, Valentina Valentini e Andrea Vecchia, miscellanea,
2018, pp. 368
26. Giulia Gigante, Inquilina di una stella. Note a margine della poesia di Elena Schwarz,