ROMA 2010
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
LA LUPA CAPITOLINA
Nuove prospettive di studio
Incontro-dibattito in occasione della pubblicazione del volume di
A
nnAM
AriAC
ArrubA, La Lupa Capitolina: un bronzo medievale
Sapienza, Università di Roma, Roma 28 febbraio 2008
a cura di
G
ildAb
ArtoloniVOLONTÀ D’ARTE, STILE E TÉCHNE
Pur essendomi affrettato a leggere il libro della dottoressa Carruba in tempo utile per discuterne in
questa sede (o forse proprio perché l’ho fatto!), preferisco ora attenermi ad alcune rilessioni cui mi
aveva indotto subito la prima notizia circa le “clamorose” conclusioni cui l’autrice dello studio (e
del lavoro che lo precede) era pervenuta. Rilessioni che mi hanno riportato indietro nel tempo, ad
impressioni – alcune più altre meno meditate ma, credo, meritevoli di venire rispolverate in questa occasione – raccolte nel corso di quelle mie indagini sul “Marte” di Todi alle quali credo di dovere il cortese invito rivoltomi dai colleghi della “Sapienza” a partecipare a questo incontro.
È opportuno che io confessi subito che – sarà una certa atarassìa raggiunta con l’età, sarà inve-ce inveterato vizio di esteta – la proposta di sottrarre la Lupa Capitolina all’arte antica, etrusca in particolare, e aggiudicarla alla medievale, non ha suscitato in me alcun moto di scandalo: un simile indiscutibile capolavoro potrebbe soffrire solo dall’essere disconosciuto tale, o dichiarato falso. Non mi sento dunque ora chiamato a far parte di un collegio di difesa in una causa per “lesa etruscità”!
Semmai, proprio per avere più volte in passato sollecitato e positivamente sperimentato l’ap-porto di indagini di tipo tecnologico al chiarimento di problemi archeologici e storici (il rapl’ap-porto di reciproca sussidiarietà tra scienze “dure” e archeologia è ormai più che trentennale!), mi turba non poco il veder riapparire, sullo sfondo di quel perentorio annuncio, il fantasma del vecchio presup-posto teorico, forse inconsapevole ma palese, che accorda ancora e sempre al dato tecnico in quanto
tale forza suficiente a far piazza pulita di decenni di rilessione critica storica, iconograica, stilistica
ecc.: perché quello è solida scienza, queste sono fantasie; quelli sono fatti, queste chiacchiere. Mi
chiedo in altri termini – ed è questa la prima rilessione che mi sento di proporre qui – perché mai, se
si scopre che la statua della Lupa è stata fusa secondo un certo procedimento x, mentre ci risultava che in antico si fondessero le statue nel modo y, al dato tecnico (la statua è stata fusa nel modo x) si accordi maggior peso che a quello archeologico (la statua è antica), cosicché il verdetto cui, muo-vendo dal dato a sua disposizione, perviene il tecnologo («dunque la statua non è antica») prevale su quello cui, con altrettanta fermezza ma con maggiore prudenza (o umiltà?), si attiene lo storico dell’arte antica («dunque le nostre conoscenze circa le tecniche fusorie antiche non sono suficien -ti»). Tornerò più avanti su questo punto, che reputo non meno importante delle fortune critiche del bronzo capitolino.
La rilessione sulla “Lupa” mi ha richiamato bruscamente al senso d’imbarazzo provato a suo
tempo (a proposito appunto del “Marte” di Todi) nel prendere atto delle precise scelte che l’autore di quell’opera aveva compiute a Volsinii tra V e IV secolo a.C.: la prima – di natura squisitamente cul-turale e ben inserita nel quadro degli intenti politici della sua città – consistita nel citare con esibita
FrAnCesCo ronCAlli
200
massimo di verisimiglianza “iconica” la propria opera ricorrendo alla lavorazione personale e diretta di quella corazza che doveva, appunto, “parer vera”; e la conseguente scelta di adeguare a quelle due esigenze il ricorso a distinte tecniche fusorie (che chiamai in quell’occasione rispettivamente “indiretta” e “diretta”), dunque tutte già ben assimilate e compresenti nel suo bagaglio tecnologico, evidentemente ricco e vario1. Ho parlato di imbarazzo: perché la combinazione del tutto disinibita e trasparente di quelle scelte diverse e potenzialmente stridenti aveva inito per creare un prevedi -bilissimo pasticcio, che aveva indotto gli studiosi di storia dell’arte etrusca a paurose esitazioni e oscillazioni nel giudizio e nelle proposte di datazione: essi infatti, non potendo in alcun modo situare
il “Marte” in un qualsiasi momento dell’età ellenistica, vagavano tra una sua assegnazione al conine
inferiore più spinto di un accettabile Retardieren – la seconda metà del IV secolo a.C. – e l’ipotesi di un improbabile revival classicheggiante e atticistico ancora più avanzato nel tempo.
Ebbene: anche la Lupa Capitolina è stata già in passato giudicata – su questo non vi è alcun dubbio – monumento sfuggente, «ambiguo» come già lo chiamava, ad esempio, Mauro Cristofani nel catalogo della mostra su “La grande Roma dei Tarquini”2, «extra ordinem» come lo deinisce
ora Adriano La Regina nella sua presentazione del volume di cui qui stiamo discutendo: e non è un caso che, accettatane l’antichità, anche per la Lupa (come, e con più forza, per la Chimera d’Arez-zo) si sia affacciata l’ipotesi di una origine “altra”, nel caso magnogreca3. Per la verità non poco,
in tale ambiguità, sembra imputabile alla forzata immissione della “Lupa” – precoce e inevitabile a Roma! – nell’alveo di quella tradizione romulea cui invece è originariamente estranea, almeno sul piano formale, piuttosto che alle presunte contraddizioni stilistiche che vi si sono volute leggere
(perlopiù individuate nell’apparente conlitto fra stilizzazioni arcaicizzanti e pathos naturalistico)4.
Contraddizioni che, d’altronde, quando anni fa affrontavo anch’io il compito di catturare il mostro e ingabbiarlo nella trama delle vicende artistiche sviluppatesi in Etruria5, mi erano apparse, al
contra-rio, come tratti perfettamente riconoscibili delle espressioni più alte e compiute della plastica etrusca dei decenni iniziali del V secolo a.C.6: perché la asciutta tensione (“stilizzazione”) del corpo della lupa, quasi calligraicamente descritto, mi pare esplodere nella forza patetica del ringhio canino
della formidabile protome (“naturalismo”) in un modo che si pone nello stesso alveo in cui, mutatis
mutandis, forse poco più di una generazione prima, il colloquiare vivace e composto degli “Sposi”
dei sarcofagi ittili ceretani era visto sbocciare – busti, volti, mani, dita – da quei corpi appiattiti e
quasi fusi entro il volume della kline, quasi immateriali sotto la elegantissima descrizione delle vesti pieghettate. Ma forse queste sono chiacchiere…
1 Su tutto questo cfr. ronCAlli 1973. 2 Roma 1990, p. 144 s., n. 6.10, tav. XV.
3 Problema considerato «ancora molto aperto e discusso» in o
rlAndini 1983, p. 457 s.
4 Si rileggano le lucide parole di E. Simon (s
iMon 1966): «Die Ursprünglichkeit ihrer Wirkung wird durch die
beiden Renaissance-Putten beeinträchtigt»; l’audace inserimento dei gemelli ne ha fatto uno «der berühmtesten Pasticci in der Kunst aller Zeit»; «Erst der kritische Geist des Historismus hat die Gruppe wieder gesprengt und die Frage nach der antiken Bestimmung der Lupa sowie die nach ihrem “kunstgeschichtlichen Ort” gestellt». Cfr. anche torelli 1976, (Arte romana) n. 10.
5 ronCAlli 1986, p. 637.
6 Come avevano già affermato con assoluta certezza gli studiosi citati alla nota precedente.
lA lupA CApitolinA
201
________
Ho fatto cenno alla Chimera d’Arezzo: ricordiamoci che anche questo capolavoro, nel quale giusta-mente Giovanni Colonna ha visto coesistere naturalismo plastico e modi subarcaici, è stato costretto
dal-la sua stessa straordinarietà a migrare non poco, se non attraverso i conini cronologici dell’antichità (ma tra V e IV secolo a.C. sì), certo almeno lungo quelli culturali e geograici che corrono tra mondo greco,
siceliota, magnogreco ed etrusco: e qui, da Vulci a Volsinii, da Chiusi ad Arezzo alla Val di Chiana7.
E se i prodotti della ritrattistica in bronzo etrusco-italica hanno trovato una ormai più consolidata
e argomentata sistemazione in età medio-repubblicana, ciò si deve alla precoce rilessione (avviata
da R. Bianchi Bandinelli e G. von Kaschnitz-Weinberg nel 1924!) sui caratteri strutturali dell’arte
medio-italica: rilessione propiziata dal “basso continuo”, assai più serrato di quello disponibile per altri “generi” della produzione igurativa etrusca, offertoci dalle testimonianze della coroplastica vo -tiva, dove trova occasionale risposta in prodotti di altrettanto livello, non a caso sospettati, in alcuni casi, di aver fatto da modello per realizzazioni in bronzo.
Il secondo punto, dunque, che tengo a sottolineare deriva proprio da queste osservazioni. I “gran-di” bronzi rappresentarono certamente, in Etruria forse più che altrove, la punta dell’iceberg, gli esponenti di massimo impegno e rango della produzione plastica a tuttotondo. Ora: un capolavoro è sempre, per sua natura, grande epigono e grande capostipite, nel suo tempo e fuori del suo tempo; il suo apparire extra ordinem si conigura come la conseguenza del suo uscire fuori misura rispetto a standard ripetitivi – che spesso proprio da lui prendono le mosse – rappresentati dalla produzione più corrente a noi pervenuta in massa, e che proprio per questo compone la maggior parte delle maglie del tessuto storico dell’arte etrusca che siamo chiamati a ricostruire.
Se non si tiene ben presente questa “ambiguità” connaturata con ogni capolavoro in quanto tale, il rischio di espropriare quelli della grande bronzistica etrusca a favore di altre mani (greche o magnogreche) o altri tempi (come, nel nostro caso, il Medio Evo), è sempre dietro l’angolo: come lo sarebbe quello di datare le opere di Antonio Canova in base agli angeli piangenti e alle colonne spezzate cui esse stesse hanno dato la stura, e che ininterrottamente, proprio dal tempo del “novello
Fidia” ino ad oggi, hanno adornato e adornano i nostri campisanti.
Non meno insidioso di questo è un altro rischio, congenere ad ogni studio che contenga, come quello di cui qui si discute, un’ampia messe di dati e indicazioni di carattere tecnico, preziose e ovviamente ine-dite in larga misura. Esso consiste nel cedere troppo precipitosamente alla tentazione di riconoscere nel
know-how così individuato (e magari ricorrente in una, due, dieci altre opere di un determinato periodo) il “totale teorico” del sapere tecnologico di quello stesso tempo. Si rischia così di declassare scelte al li-vello di “non-scelte”, opzioni tecniche potenzialmente consapevoli e mirate a sintomo di limiti – in realtà inesistenti – di capacità o conoscenze, o addirittura di canonizzare come caratterizzanti quel sapere anche occasionali accidenti, come difetti di fusione e relativi apprestamenti riparatori. E il celebre racconto del Cellini circa la “diabolica” fusione del suo Perseo ci dovrebbe insegnare che tutto, in quell’opera – tema,
iconograia, stile – siamo autorizzati ad assumere quale caratteristico del tempo in cui operò e dell’am -biente culturale in cui si muoveva: assai meno la tecnica, di cui vantava egli stesso l’audacia e novità, e
meno ancora la lega, nella quale erano initi quei suoi «dugento […] piatti e scodelle e tondi di stagno»8.
7 C
olonnA 1985: «[...] un unicum che […] ha fatto scuola»; orlAndini 1983, p. 457 s.; Parigi 1992, p. 379,
n. 366.
8 B. C
FrAnCesCo ronCAlli
202
________
Fig. 1. londrA, British Museum. Busto bronzeo
dalla “tomba d’Iside” di Vulci (da ronCAlli 1998).
getto e dall’assemblaggio delle parti, ci sorprende non poco l’episodio occorso all’artista in corso d’opera (cap. LXIII): preso atto a malincuore della splendida riuscita della fusione separata del corpo di Medusa, la malalin-gua di Baccio Bandinelli avrebbe insinuato al duca Cosimo I il sospetto che «[…] se bene io gittavo qualcuna di queste statue, […] mai io non le metterei insieme […]». Come se l’assemblaggio delle parti rappresentasse, per l’orafo nuovo a quell’impegno, un passaggio più arduo della stessa fusione!
9 r tema che mi sembra particolarmente adatto a il-lustrare il forte legame che unisce, in ciascuna
opera, il signiicato voluto e preigurato, da un
lato, la scelta artistica e l’espediente tecnico via via adottati per concretizzarlo, dall’altro.
È a tutti noto che, nella statuaria antica, un modo ricorrente di rendere l’occhio (sia nei bronzi laminati che in quelli a fusione) consi-ste nell’inserire nel cavo oculare, totalmente o parzialmente aperto o solamente incassato per farvi spazio, sostanze riportate. Per restare in Etruria, gli esempi, che includono la nostra Lupa, potrebbero moltiplicarsi: dal busto bron-zeo (sfur»laton) della tomba d’Iside di Vulci (Fig. 1)9 al Bruto Capitolino, dalla testa di
Aric-cia (Fig. 2)10 al già citato “Marte” di Todi, dalla
testa di Cagli (Fig. 3)11 al cinerario
dell’Ermi-tage12 ai ritratti virili da Fiesole al Louvre (Fig.
4)13 e da S. Giovanni Lipionialla Bibliothèque
Nationale (Fig. 5)14, ecc. (per limitarci ai
bron-zi: ma che tale esigenza/costume attraversasse l’intera gamma delle rappresentazioni
plasti-che della igura umana è noto e testimoniato
da esempi quali la testa lignea forse vulcente di Milano15, o dalle statue in arenaria da
Casa-le Marittimo16). Ciò tuttavia non ci autorizza a
lA lupA CApitolinA
203
Fig. 2. CopenAGhen, Ny Carlsberg Glyptotek.
Te-sta giovanile in bronzo da Ariccia (da Roma 1990).
Fig. 3. AnConA, Museo Archeologico. Testa
giova-nile in bronzo da Cagli (da dohrn 1982).
Fig. 4. pAriGi, Musée du Louvre. Ritratto virile in
bronzo da Fiesole (da FrovA 1957).
Fig. 5. pAriGi, Bibliothèque Nationale. Ritratto
vi-rile in bronzo da San Giovanni Lipioni (da FrovA
FrAnCesCo ronCAlli
204
________
l’antichità (dallo Zeus di Ugento ai bronzi di
Riace, dall’Auriga di Deli all’Apollo di Piom -bino…). Si tratta invece, con ogni evidenza, di un espediente prescelto in opere in cui la ve-risimiglianza e “magia” dello sguardo era
per-cepita come necessaria a garantire l’eficacia e
funzionalità del simulacrum: fosse esso statua di culto o funeraria o donario votivo. La for-za di questa ragione ci è del resto confermata
e contrario là dove, attenuandosi o venendo meno del tutto quella esigenza “iconica” pri-maria – come nel caso delle note oinochoai in bronzo a testa umana tipo Gabii (Fig. 6)17 o nel
satiro(-sostegno di cratere?) di Armento – ve-diamo anche la scelta tecnica adeguarvisi e il trattamento degli occhi rientrare, per così dire, nei ranghi di una resa del volto umano più piana ed eguale, descrittiva e senza tensione. E valga a misurare la differenza, e cioè quale e quanta
fosse l’eficacia di quel particolare espediente,
il confronto fra i due citati ritratti del Louvre e della Bibliothèque Nationale (Figg. 4-5) nel loro stato di conservazione accidentalmente di-verso: nell’uno, in cui è andato perduto il riempimento dell’iride, lo sguardo ci appare ora quasi reinserito armonicamente nell’evocazione ritrattistica della testa, mentre nell’altro, a dispetto dei richiami formali classicheggianti (si veda la capigliatura!), esso fuoriesce quasi con violenza dalla materia/bronzo; mentre il primo “è il ritratto di --”, il secondo “è --”, e il risultato ci si presenta come un quid medium tra ritratto isionomico e inquietante ricostruzione da anatomopatologo forense.
Potremmo allora forse assumere la norma così acquisita, ancorché più sensibile e articolata della precedente, quale criterio discriminante utile ad accogliere o respingere l’antichità di un bronzo? Ancora una volta, no. Un invito alla prudenza ci viene dalla testimonianza di un altro “grande” bron-zo etrusco, purtroppo mutilo: la testa maschile dal Lago di Bolsena conservata al British Museum (Fig. 7)18, databile alla prima metà del IV secolo a.C., nella quale, nonostante le proporzioni,
l’evi-dente carattere statuario e l’intenzione rappresentativa di un personaggio determinato (divino?), gli
occhi presentano l’iride semplicemente incisa sulla supericie chiusa del metallo. Non nascondo le
perplessità che questo bronzo ha sempre suscitato in me proprio a causa di una simile anomalia: ma sono convinto di dovermele tenere per me, in sordina, in attesa di riuscire forse un giorno a capirne
il perché: che comunque (e di questo si può star certi in da ora!) non è di natura tecnica. Ma forse
Fig. 6. pAriGi, Musée du Louvre. Oinochoe in
bronzo a testa giovanile da Gabii (da dohrn 1982).
17 d
ohrn 1982, p. 64, tav. 38; Parigi 1992, pp. 298, 394, n. 449.
lA lupA CApitolinA
205
possiamo già intravederlo, quel perché, ipotiz-zando per quel bronzo un qualche contesto di tipo “narrativo” (forse celebrativo?), nel quale
l’esigenza di viviicare lo sguardo del personag -gio si stemperasse o cedesse del tutto il passo alla rievocazione di un gesto o di un’azione, nel quadro di un evento (miti-)storico. E se anche nel “Putto Carrara” del Museo Gregoriano19 (un
piccolo “grande” bronzo di dimensioni di poco inferiori al naturale!) gli occhi sono stati sempli-cemente descritti mediante l’incisione dell’iride e della pupilla nel metallo, ciò potrebbe inten-dersi come un indizio non tenue del fatto che sullo sfondo della scelta iconologica che ha dettato la formulazione della statua si stagliasse davvero la citazione intenzionale del fanciullo tarquiniese kat’ ™xoc»n, il mitico Tagete, e che dunque anche in questo caso il coinvolgimento
della iguretta in un’azione almeno idealmente
parte di un dettato più vasto possa avere neu-tralizzato l’esigenza di personalizzare e sovrac-caricare magicamente lo sguardo del fanciullo.
Valgano questi pochi esempi, scelti un po’
alla svelta, a restituire alla “volontà d’arte” dei bronzisti etruschi, e dell’autore della Lupa in parti-colare, la priorità che le spetta rispetto alla sensibilissima téchne in cui essa si traduce, e a meritare agli studiosi di quella il dubbio e la prudenza degli analisti di questa.
FrAnCesCo ronCAlli
BIBLIOGRAFIA
AdAM 1984: A.M. AdAM, Bibliothèque Nationale. Bronzes étrusques et italiques, Paris 1984.
bruni 2000: s. bruni, «La scultura», in Venezia 2000, pp. 365-391.
ColonnA 1985: G. ColonnA, «Chimera ferita», in Santuari d’Etruria, Catalogo della mostra (Arezzo
1985), Milano 1985, p. 173 s., n. 10.1.
dohrn 1982: T. dohrn, Die etruskische Kunst im Zeitalter der griechischen Klassik. Die Interimsperiode,
Mainz 1982.
FrovA 1957: A. FrovA, L’arte etrusca, Milano 1957.
hAynes 1985: S. hAynes, Etruscan Bronzes, London-New York 1985.
Fig. 7. londrA, British Museum. Testa virile in
bronzo dal Lago di Bolsena (da dohrn 1982).
19 ronCAlli 1985.
FrAnCesCo ronCAlli
206
Leningrado 1990: Antichità dall’Umbria a Leningrado, Catalogo della mostra (Leningrado 1990), Peru-gia 1990.
orlAndini 1983: P. orlAndini, «Le arti igurative», in G. puGliese CArrAtelliet Al., Megale Hellas.
Storia e civiltà della Magna Grecia, Milano 1983, pp. 329-554.
Parigi 1992: Les Étrusques et l’Europe, Catalogo della mostra (Parigi 1992-Berlino 1993), Parigi-Milano 1992.
Roma 1990: La grande Roma dei Tarquini, Catalogo della mostra (Roma 1990), Roma 1990.
ronCAlli 1973: F. ronCAlli, Il “Marte” di Todi. Bronzistica etrusca e ispirazione classica (MemPontAc
ser. III, vol. XI, 2), Città del Vaticano 1973.
ronCAlli 1985: F. ronCAlli, «Statua votiva bronzea di fanciullo (Putto Carrara)», in Santuari d’Etruria,
Catalogo della mostra (Arezzo 1985), Milano 1985, p. 37 s., n. 1.24.
ronCAlli 1986: F. ronCAlli, «L’arte», in M. pAllottinoet Al., Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi,
Milano 1986, pp. 531-676.
ronCAlli 1998: F. ronCAlli, «Una immagine femminile di culto dalla “tomba d’Iside” di Vulci», in
Ann-Faina 5, 1998, pp. 15-39.
siMon 1966: E. siMon, in W. helbiG, Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in
Rom, II. Die Städtischen Sammlungen. Die Staatlichen Sammlungen4, hrsg. von h. speier, Tübingen
1966, p. 277-281, n. 1454.
torelli 1976: M. torelli, «Roma: Lupa Capitolina», in r. biAnChi bAndinelli, M. torelli, L’arte
dell’antichità classica – Etruria, Roma, Torino 1976, (Arte romana) n. 10.