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13.3 Sisa Tabet Lopez IL DUETTO DELLE CI

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IL DUETTO DELLE CILIEGE

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Oltre a essere moglie di scrittore —Sahatino Lopez — e toscana come lui (era nata a Livorno 1' 8 ottobre 1885) la signora Sisa coltivò in proprio, e con molta sensibilità, l' arte della rievocazione, specie negli ultimi lucidi anni della sua lunga vita. Questo ricordo d' infanzia, ambientato all' Antignano nell' autunno del 1891 e scritto nel 1973 o '74, fa parte di un progettato volume autobiografico rimasto interrotto. I lettori della << Martinella >> forse ne ricorderanno un altro capitolo, Trenta lire per un Fattori, uscito in quella stessa estate del 1975 in cui l' autrice morì, novantenne.

Sarà stato verso il 1930, il '35, quando ancora me ne andavo in giro per conto mio, e per mio conto in vacanza d' estate. Ero seduta nel giardino di una villetta isolata, lontano dalle radio accese, dal traffico automobilistico, da tutti quei rumori che già cominciavano a prevalere sui suoni, i fruscii, i canti della natura. La villa sorgeva a pochi passi dalla spiaggia. Col soffio della brezza, con l' odore del salso sentivo provenire lo sciabordio del mare un po' inquieto. Sola, tranquilla, fantasticavo.

Ed ecco, al secondo piano della villetta, improvvisamente, il suono di un pianoforte: un pianoforte di quelli di una volta, dal timbro un po' metallico per il troppo uso. Ai tempi della mia infanzia e adolescenza li sentivi quasi a ogni angolo — quanto meno nei quartieri signorili — passando per le vie, perché ancora non esistevano radio, televisione, musicassette, trentatre giri o quarantacinque giri (e neppure i grossi dischi pesanti di Caruso) e quasi tutte le fanciulle 'di buona famiglia' — anche se ferme, quanto a studi, alle scuole elementari o poco più — avevano però le loro brave lezioni di piano.

Suonavano gli studi di Czerny, le Romanze senza parole di Mendelsohn, le suonatine di Diabelli; si azzardavano nel Chiaro di luna e nei Waltzer e Notturni di Chopin. E facevano pure i 'martelletti', quella sorta di supplizio a dita rigide, che stava allo studio del pianoforte come le aste allo scrivere e al compitare: e le scale, gli arpeggi, i solfeggi col metronomo. A certi nodi della partitura, immancabilmente, ogni volta ripetevano il medesimo errore. C' erano maestre dal viso smunto, dai modi supplichevoli; altre, segaligne, imperiose, tiranniche addirittura, da farti odiare la musica per l' intera vita. Insegnavano per bisogno, per rivalsa, per tradizione di famiglia; raramente per amore vero. Così come le loro scolarette, solo una su dieci si appassionava; tutte le altre — me compresa — subivano. Rifiutare, rivoltarsi, era pressoché inconcepibile, qualcosa di inaudito. E, quasi non bastasse il tedio dello studio e delle lezioni, si aggiungeva il terrore di dover sfoggiare in pubblico (sia pure a un pubblico di parenti o amici intimi) l' esito di quelle fatiche.

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Dunque: una villa, il mare vicino, la pineta alle spalle, la brezza; e, in uscita dalla finestra aperta al secondo piano, il suono di quel pianoforte. Riconosco il motivo: è << Il duetto delle ciliege >> dell' Amico Fritz di Mascagni. Ha poco meno della mia età: composto nel '90, rappresentato nel '91.

Avevo dunque dai sei ai sette anni la prima volta che lo ascoltai: in una villetta di campagna all' Antignano, alla periferia di Livorno, ai primi di ottobre. Nel giardino della villetta c' è una bimba che gioca. Sono io.

Siamo fuggiti da Livorno incalzati dal diffondersi di una brutta febbre fra i grandi casoni dei quartieri nuovi. Ognuna di quelle case racchiudeva uno spazioso cortile con tanti balconi, almeno uno per appartamento: ma, in fatto di servizi igienici, non c' era che percorrere quei balconi dalla cucina al cosiddetto 'locale attrezzato' (malissimo attrezzato: una piastra di marmo, o di legno, il foro, una brocca da vuotare riempire vuotare riempire). Acqua corrente? zero. Ogni appartamento aveva sotto la finestra di cucina un pozzo dal quale, a forza di braccia, si tirava su un secchio dondolante per le esigenze della pulizia di casa. Acqua potabile? era definita << acqua da bere >> quella che nelle giornate piovose scolava nel lavandino dei piatti perché, sopra il lavandino, sul tetto, c' era una piccola cisterna adibita a raccogliere l' acqua piovana. E' pulita — dicevano — perché viene dal cielo. Né si faceva troppo caso al fatto che la cisterna, scoperta, servisse da vasca per gli uccellini e per i piccioni, o che vi entrassero polvere e sterpi portati dal libeccio.

Così, e nonostante la presenza in città del grande e famoso Cisternone, inaugurato nel 1842, Livorno era città particolarmente esposta alle epidemie, di cui si facevano involontari portatori i commercianti di cose esotiche, approdando al porto con i loro velieri. E' da stupirsi, tutto sommato, che non vi siano mai stati dei casi veramente endemici di malattia. Comunque, ogni volta circolasse (in tono molto sommesso, per non seminare il panico fra i residenti, o, peggio, la paura tra i villeggianti venuti a fare i bagni a Pancaldi) la notizia di malattie sospette, subito la cuoca riceveva l' ordine tassativo di far bollire il latte e l' acqua da bere, e su tutti scendeva la proibizione di mangiare verdure crude, o frutta che non fossero preventivamente ben lavate e per sovrappiù sbucciate. Come antidoto, ogni sera prima di andare a letto, sorgeva l' obbligo di bere un sorso di Cognac: si era infatti diffusa la voce, accreditata dai medici, che le bevande alcooliche, e specialmente il Cognac col suo ardore di fuoco, sbarrassero la strada a — Dio ce ne liberi — il colera. Anche noi bambini si doveva trangugiare un fondo di bicchierino e a me quella ingozzata dava disgusto e capogiro; o quanto meno il singhiozzo. Ricordo ancora i pianti, gli strilli, le fughe, il nascondersi sotto i letti; e la ricompensa dolce (caramelle) se ci lasciavamo persuadere di primo acchito.

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ufficialmente (sempre ad evitare panico e fughe di forestieri) di febbre puerperale. Ma che si trattasse, invece, di colera, lo sospettarono i più. E, chi poteva, prese la carrozza, e via al mare!

Eccomi, dunque, nel giardino, a guardare le formiche che trascinano un grosso insetto morto. E' pesante, ma le formiche sono molte a tirare: allora tolgo un sasso che ostacola il loro cammino, e l' insetto predato rotola nel buchetto lasciato dal sasso, insieme con tutte quelle formiche attaccate alle sue zampe. Ora ricomincio a scegliere i sassolini per metterli nel secchiello che mi hanno regalato la mattina: scelgo i più belli, quelli che al sole luccicano di più. Oggi è il mio compleanno, e — oltre al secchio — ho avuto tanti altri regali da Papà, da Mamma, dalla Nonna, dagli zii, e dalla signora Costanza. Una delle mie zie mi ha promesso, inoltre, di portarmi — più tardi — al caffè sul lungomare per scegliermi un bel gelato.

Il gelato! I bimbi di oggi ricevono o si comprano gelati molto spesso: non vedono più il gelato come un premio; quasi, per i bimbi d' oggi, la coppa di gelato non rappresenta più nemmeno una ghiottoneria. Ma allora! Soltanto nelle grandi occasioni si aveva il gelato. Era considerato 'un lusso', una grossa ricompensa per qualcosa di bello e buono che si fosse fatto, e per una qualche occasione davvero speciale. Solo ad alcuni bambini molto fortunati — o molto viziati — capitava che i genitori, forse più ricchi, forse più di cuore tenero, o più golosi in proprio, concedessero il gelato regolarmente ogni domenica. Ma erano in pochi.

Così io, mentre giuoco con i sassolini, aspetto la zia; e già col pensiero anticipo la delizia di assaporare il mio gelato. Piano, perché duri di più. Se ne prende un po' sul cucchiaio e si lecca con la punta della lingua: il gelato si liquefa in bocca e la inonda di fresco e di dolcezza. Non so quale sapore sceglierò, al dunque. Potrei prenderlo di crema e cioccolato; ma anche la fragola è cosi buona! Ecco: se la zia lo prendesse di fragola, e io di crema e cioccolato, si potrebbe sperare in un assaggio; o in uno scambio, a metà gelato. Chissà.

L' orologio di una chiesa vicina ha battuto le quattro: fra poco dal balconcino mi chiameranno perché vada a mettermi il vestito bianco e la cintura con dietro il gran nodo di seta azzurra << per uscire >>.

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Accoccolata nel mezzo del viale, con in mano una manciata dei miei sassi, vorrei dire a Papà e Mamma, che vanno in fretta al cancel1o: << Ricordatevi che ci sono anch' io >>. Ma loro non mi badano; anzi per affrettarsi incontro all' ospite Papà mi fa un brusco cenno: << Mettiti più in là >>. Il signore dai capelli lunghi avanza festosamente, un attimo si ferma ad acccennare una carezza alla mia fronte. Intimidita, non parlo, e soltanto a un' occhiata perentoria di Mamma mormoro un saluto. Li seguo con lo sguardo mentre entrano in casa e, quando sono arrivati al salotto, sento il brusio delle loro voci e il rumore delle seggiole smosse. Ecco: d' improvviso distinguo anche la voce della zia, entrata pure lei a salutare l' ospite, e che fra un momento scenderà a portarmi al caffè a scegliere il gelato (di fragola? di panna e cioccolato?).

Torno ad accoccolarmi per terra. Le formiche devono essere riuscite a portare la loro preda nel formicaio perché non le vedo più — o forse ho sbagliato il luogo. Il secchiello si è rovesciato, ma io non ho più voglia di giuocare. Comincio a sentirmi inquieta: e se la zia si dimentica di me, del mio compleanno e del mio gelato? L' orologio ha già sonato da un pezzo le quattro e mezza. Dalla strada vedo passare le solite bambine del Collegio che tutti i giorni a quell' ora fanno una passeggiatina verso il mare. Camminano in fila: prima le piccole, poi via via le più grandi; e — in cima e in fondo alla fila — ci sono due suore con gli scuffoni sventolanti intorno al viso, e la corona del Rosario che sbatte a ogni passo dell' ampia gonna. Le bimbe sono tutte vestite in grigio, con un colletto bianco e un cappellino che pare fatto apposta per imbruttirle.

Sopra, nella villetta, qualcuno deve aver aperto il pianoforte, perché sento suonare. Non è la solita musica. Nessuno mi chiama. Il sole, ormai nascosto dagli alberi alti, non fa più luccicare i sassolini, diventati tutti egualmente grigi. Non c' è più dubbio: si sono proprio dimenticati di me, e del buon gelato che io lecco piano piano per farlo durare di più.

Raccolgo, lenta, il secchiello, e torno a casa, nella stanza dei miei giocattoli (non oserei mai entrare nel salotto senza essere chiamata). Mi butto ginocchioni per terra, con la testa appoggiata a una seggiola. Il gatto bianco e nero mi viene incontro, salta sulla sedia per strofinarsi al mio viso. Sento la carezza della sua lunga coda, e lo abbraccio per tuffare le mie lacrime nel suo pelo morbido.

Di sopra, suonano ancora, e adesso una voce di uomo — certamente è di quel signore venuto di fuori via — accenna un motivo. Lo riconoscerò molti anni più tardi: il motivo del << Duetto delle ciliege >>.

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