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PhD Tesis 2010 Territori rifiutati. Ge

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Università degli Studi di Napoli “L'Orientale”

Tesi di Dottorato

in

Geografia dello Sviluppo

XXII Ciclo (VII nuova serie)

Territori rifiutati

Geografia dei rifiuti e conflitti ambientali.

Un'analisi transcalare del caso campano

Coordinatore:

Prof. Rosario Sommella

Direttore di ricerca: Candidato:

Prof. Sergio Ventriglia Simon Maurano

(2)

Indice

2. Alle origini dei rifiuti: l’altra faccia della produzione...15

2.1 Ambiente e problemi socio-economici...22

2.2 I problemi ambientali ...34

3. Un approccio geografico alla questione rifiuti: note metodologiche ...47

3.1 “Rifiutologia” ...48

1.2 Le risorse naturali nel treadmill of production...86

1.3 L'Italia nel quadro delle politiche europee di gestione delle risorse...93

2. La gestione dei rifiuti e l'approccio transcalare. L’esempio italiano ...104

2.1 Transcalarità e politiche dei rifiuti ...113

2.2 La gestione dei rifiuti a scala macroregionale: le nuove norme dell'Unione Europea...127

2.3 Normativa e territorio: differenze spaziali e criticità di applicazione in Italia...147

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Attori, interessi e governo: il conflitto ambientale campano nel contesto della “società dei rifiuti”

1. I conflitti territoriali: le lotte delle grassroots communities nei “territori rifiutati”...285

2. Il caso Campania: un conflitto multiscalare e multilivello ...293

2.1. Passaggi di scala nel governo del territorio ...295

2.2 Scelte localizzative: la Campania come territorio “sacrificato”?...298

2.3 Salute e ambiente: un'arena di contesa...303

2.4 Le comunità territoriali e la partecipazione: contestazioni bottom up e proposte di governo ...314

3. Altri territori: un confronto internazionale in contesti “diversi”...317

4. Alternative possibili: la territorialità condivisa...320

Conclusioni...326

Bibliografia...331

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INTRODUZIONE

Questa tesi si occupa del tema dei rifiuti, e quindi anche di quello dei consumi, suo alter-ego. Sembrerebbe un lavoro settoriale, ma, in realtà, questi argomenti, se non trattati aridamente, cioè focalizzando l'attenzione solo sul versante tecnico della questione, sono di grande rilevanza per la geografia politica del territorio. Citando Coppola, infatti, se «al

fondo tutta la geografia umana è null'altro che geografia politica»1, a maggior ragione lo è

quella dei rifiuti, in cui molte sono le implicazioni socio-politiche legate alle decisioni da prendere nella localizzazione di un sito di smaltimento, nelle modalità di raccolta, nella definizione dei compiti dei vari livelli amministrativi e così via. Il caso della cattiva gestione dei rifiuti in Campania, come molti altri casi internazionali, mostra quanto l'argomento in questione sia fortemente controverso e sia spesso causa della nascita di aspri conflitti legati alla gestione del territorio. La conflittualità ambientale è l'altro tema alla base di questo lavoro: essa non è legata solo allo smaltimento dell'immondizia, ma è comunque fortemente connessa all'aumento dei consumi e alla gestione dei rifiuti generati da tutto il ciclo della produzione.

Nell'ambito della citazione fatta in precedenza, tratta dal libro Geografia politica delle

regioni italiane, emerge come la regione da ricercare in quel lavoro non era «né il Veneto o l'Emilia, né un modello di distretto locale, né lo spazio di gravitazione di una metropoli»,

ma era la democrazia. Seppur più modestamente, questa tesi prova a seguire quegli

insegnamenti e aspira anch'essa a essere uno scritto di “geografia civile”: intende infatti far emergere le opportunità di convivenza pacifica e di uso condiviso del territorio, nel particolare ambito delle politiche di gestione dei rifiuti. Una chiave di lettura geografica e interdisciplinare può, in effetti, essere di notevole aiuto a comprendere fatti territoriali e tendenze in atto, laddove troppo spesso la predominanza di studi meramente tecnici e l'imposizione di politiche dall'alto non hanno aiutato a risolvere casi difficili, come quello campano, che sono solo la punta dell'iceberg delle tendenze in atto di aumento dei rischi ambientali e sociali per tutte le comunità territoriali, nei paesi economicamente sviluppati come in quelli in fondo alla lista delle classifiche basate sul Pil.

Varie direttrici di ricerca s'incrociano e s'intrecciano in questo lavoro: la questione ambientale, assurta globalmente a problema di importanza vitale, è stata esaminata attraverso vari approcci, tra cui la geografia ha avuto il merito di mettere in correlazione

1 Coppola P. (a cura di), Geografia politica delle regioni italiane, Einaudi, Torino, 1997. Si veda in

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ambiente e società negli studi “territorialisti”; così anche gli studi maggiormente legati alla conflittualità ambientale (e dunque a questioni politiche di redistribuzione dei rischi e

delle risorse sul territorio), come il filone di ricerca statunitense dell'environmental justice,

hanno avuto il merito di rifuggire da spinte esclusivamente antropocentriche, tornando all'oggetto geografico di ricerca per eccellenza: il rapporto tra ambiente e società.

Il lavoro si inserisce poi nel filone di ricerca sulla segregazione spaziale: l’ipotesi principale che si intende dimostrare è che, nel caso della Campania, così come già evidenziato in altri casi internazionali, i modelli di gestione dei rifiuti adottati sono sia conseguenza della segregazione spaziale esistente, sia causa di ulteriori problemi di sperequazione territoriale. E' chiaro in Campania come la segregazione spaziale si manifesti in modo transcalare, attraversando molteplici livelli amministrativi e geografici. E' infatti riscontrabile:

• a scala nazionale, poiché essa rispecchia e inasprisce i differenti livelli di benessere

socio-economico tra il centro-nord italiano e il Mezzogiorno;

• a scala regionale, poiché all’interno della regione stessa esaspera le differenze

esistenti tra il capoluogo e il resto del territorio e tra altre aree geografiche dotate di

caratteristiche morfologiche o socioeconomiche diverse2;

• a scala urbana: soprattutto nell'area metropolitana di Napoli la gestione dei rifiuti

crea differenze spaziali interne, che hanno pesanti effetti sugli spazi periferici3.

L'analisi transcalare, nell'attuale sistema economico mondiale, è irrinunciabile sia in Campania che negli altri casi di conflitto legato alla gestione delle risorse. La segregazione spaziale, correlata dunque ai conflitti ambientali, deriva da una cattiva gestione del territorio, che a sua volta è legata alle politiche di sviluppo territoriale locale, connesse a quelle nazionali e mondiali.

La relazione tra le politiche di sviluppo e l'ambiente è un altro fondamentale filone di ricerca di questo lavoro, che intende guardare alla gestione dei rifiuti non solo dal punto di vista dell’organizzazione del servizio di raccolta, di smaltimento e dei relativi bacini di utenza, ma soprattutto da quello delle scelte di sviluppo economico, e dunque di produzione e di consumo, che ne sono all’origine. Bisogna considerare, infatti, che sebbene il modello occidentale di sviluppo percorso dalle nazioni oggi dominanti sulla scena internazionale abbia generato grandi progressi economici, diventando un riferimento

2 Dove le fondamentali variabili sono quelle morfologiche, di accessibilità e connessione,

socioeconomiche, di influenza della criminalità organizzata, di peso politico dei loro rappresentanti e così via.

3 Nei quartieri di Pianura e Chiaiano, occupati rispettivamente da una storica discarica oggi chiusa e

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concettuale anche per gli altri paesi del mondo, dall’altro lato porta con sé un notevole corredo di contraddizioni. La persistenza degli squilibri mondiali infra e

inter-generazionali4 mette in evidenza i limiti insiti dell’attuale modo di produzione

capitalistico5.

Le contraddizioni dello sviluppo sono tali da far nascere molteplici conflitti, che toccano diversi ambiti, tra cui quello sociale e quello ambientale. Quelli più legati all'ambiente traggono origine dalla gestione del territorio e finiscono per alimentare nelle

comunità locali la conoscenza e la consapevolezza dei luoghi abitati6, e l’importanza di

preservare il loro ambiente per la loro stessa sopravvivenza. Ciò avviene anche negli ambiti urbani, come mostra la letteratura internazionale. Essa è ben rappresentata dal

filone dell'Environmental justice, nato negli Stati Uniti per descrivere le lotte ambientali

urbane contro un utilizzo dello spazio condizionato da pregiudizi etnico-razziali o di

classe. Questi movimenti bottom-up, che hanno preso coscienza di sé negli anni ottanta,

hanno un substrato comune con quelli coinvolti nei conflitti ambientali del Sud del mondo. Tali movimenti nati nei conflitti territoriali si presentano in svariate forme: vi sono

4 Cioè tra le generazioni presenti e future e tra i diversi popoli che abitano attualmente diverse aree

del mondo (come nella definizione dello sviluppo sostenibile data dal rapporto Bruntland del 1987).

5 Il concetto di modo di produzione è stato elaborato da Marx ed ha avuto notevole fortuna nel

pensiero neo-marxista (ad es. nel pensiero di Karl Polanyi, David Harvey, Giovanni Arrighi, teorici che lo hanno utilizzato come metodo di analisi delle trasformazioni del sistema capitalistico.

Numerosi studi, come afferma Giovanni Arrighi (cfr. Arrighi G., Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, EST, Milano, 1996, pp.18-21), hanno seguito le orme della “scuola della regolazione” francese, che parla delle trasformazioni del capitalismo di fine ’900 come di una crisi strutturale del regime di accumulazione fordista-keynesiano. Arrighi continua segnalando che Lash e Urry interpretano questo fenomeno come la crisi del “capitalismo organizzato” e la nascita di un “capitalismo disorganizzato”. David Harvey, in disaccordo con l’idea di “disorganizzazione”, ipotizza invece la nascita di un nuovo regime di “accumulazione flessibile”, che supera le rigidità del modello precedente.

Tale nuova fase del capitalismo è caratterizzata, in breve, dalla globalizzazione del sistema economico e da cambiamenti strutturali del sistema produttivo, come uno spostamento di poteri a favore del capitale finanziario, da un rimescolamento spaziale dei processi di produzione e di accumulazione, dalla ripresa delle piccole e medie imprese a spese della pianificazione operata dalle grandi imprese e dai governi.

Ad oggi è questa fase è guidata dagli Stati Uniti (che detengono ancora il predominio militare come potenza vincitrice della guerra fredda), ed è sostenuta dalla “Triade globale”. Attualmente, però, paesi demograficamente importanti e in forte sviluppo economico, con governi stabili (come Brasile, India, Cina, Sudafrica) stanno tentando di cambiare gli equilibri geopolitici mondiali. Secondo Arrighi, l’attuale ciclo di accumulazione è in una fase di espansione finanziaria che prelude al superamento del vecchio regime statunitense e alla creazione di un nuovo regime, ancora in fase di definizione. In particolare, questo autore assegnava alla Cina un probabile ruolo di nuova potenza mondiale, che potrebbe, se non prendere il posto degli Stati Uniti, almeno affiancarli nella guida del sistema economico (si vedano le conclusioni di Arrighi,

op. cit.).

Per una trattazione più precisa dell’argomento si rimanda inoltre e al testo di David Harvey, La crisi della modernità, Est, 1997, che ha un titolo più appropriato nell’edizione originale del 1990: The condition of Postmodernity: An Enquiry Into The Origins Of Cultural Change.

6 A volte i conflitti alimentano il senso di appartenenza ai luoghi, laddove si era perso con la

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quelli delle popolazioni indigene che vivono in ambito rurale, fuori dal sistema economico di mercato e che lottano per la difesa della loro terra, minacciata spesso dalle multinazionali interessate a sfruttarne le risorse naturali; vi sono quelli che riguardano invece gli ambiti urbani, dove ormai risiedono milioni di persone dopo l’esodo rurale della seconda metà del novecento: tra questi, la gestione dei rifiuti urbani è tema ricorrente, sia perché essi assumono un valore economico fondamentale per la sopravvivenza di milioni di persone che traggono sostentamento dalla loro selezione, vendita e riutilizzo, sia perché il loro smaltimento necessita di impiantistica inquinante, localizzata nella stragrande maggioranza dei casi nei sistemi territoriali più deboli. Vi sono poi movimenti che nascono intorno alla questione dell'illegale smaltimento dei rifiuti tossici: in tal caso esiste un parallelismo tra i traffici Nord-Sud del mondo e quelli nord-sud Italia guidati dall'ecomafia del Mezzogiorno.

Anche i movimenti dal basso, come le politiche economiche, assumono spesso

strategie di azione a scala globale7. Nella disamina dei conflitti ambientali locali bisogna

tener conto del rapporto stretto che può esistere tra i movimenti locali e quelli internazionali, tra quelli legati alla difesa di un territorio per la loro sopravvivenza e quelli di matrice più marcatamente ambientalista che si occupano dei problemi del pianeta intero.

Il caso di studio scelto per questa tesi è un chiaro esempio del legame forte esistente tra i modelli di sviluppo, la gestione del territorio, la segregazione spaziale, la gestione

degli scarti e i conflitti ambientali. La crisi dei rifiuti8 nella regione Campania è di certo

basata sull'inefficienza e inefficacia della macchina amministrativa locale, in cui facilmente si infiltrano interessi illeciti dei poteri criminali organizzati e non. Ma, sebbene queste difficoltà determinino la complessità del caso, sono solo una concausa: le questioni aperte e irrisolte del dibattito sullo sviluppo appaiono come la principale causa dei conflitti ambientali conosciuti nel mondo: la pace sociale raggiunta nella “società dei consumi”, infatti, nasconde in realtà numerose crepe nell'architettura del sistema economico contemporaneo.

7 Essi hanno reso globale la propria strategia, fondando il World Social Forum a Porto Alegre nel

2001, che si riunisce periodicamente e che organizza controvertici nei luoghi degli incontri internazionali ufficiali delle istituzioni accusate di sviluppare politiche globali neoliberiste: il controvertice e le manifestazioni di protesta a Seattle, nel 1999, contro l’incontro del WTO, è da molti considerato il luogo di nascita del movimento – detto, non a caso, “popolo di Seattle”. Cfr. Boggio F., “Gli spazi economici e culturali e la geografia”, in Boggio F., Dematteis G. (a cura di), Geografia dello sviluppo. Diversità e diseguaglianze nel rapporto Nord-Sud, Torino, Utet, 2002 e il sito internet del World Social Forum, www.forumsocialmundial.org.br.

8 “Emergenza rifiuti” è la definizione data da più parti al conflitto campano. La accetteremo come

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Il caso campano, poi, può essere preso come uno degli esempi più completi di situazione di conflitto ambientale, poiché:

• è un conflitto di lungo periodo;

• è popolato da una molteplicità di attori coinvolti e di forze in gioco;

• racchiude in sé numerosi valori e interessi contrastanti;

• vi è un forte legame di alcuni attori coinvolti con i territori arena di conflitto;

• ci si trova di fronte a poteri politico-economici (legali e non) e movimenti

sociali multi e transcalari.

L'analisi dell’intreccio delle forze in gioco può consentire una più approfondita comprensione dei conflitti ambientali, sia in generale, sia dello stesso caso campano: esso è

stato accompagnato da scalpore e grande enfasi mediatica quando l'immondizia invadeva le principali strade della città di Napoli, ma le numerose questioni irrisolte che non sono al

centro dell’informazione, come quelle riguardanti le inefficienze amministrative e i disastri ambientali verificatesi nelle periferie dello stesso capoluogo e nella Campania interna, rappresentano invece i punti focali del conflitto, e rimangono maggiormente in ombra proprio a causa della loro localizzazione periferica. Quanto detto ci fa notare come, in questo conflitto e negli altri entrino in gioco una serie di fattori quali:

• a livello locale: il rapporto centro/periferia della rete urbana e quello tra spazi urbani e rurali, il controllo informale o illegale degli spazi e l’efficacia delle istituzioni locali;

• a livello transcalare (a livello locale, nazionale e globale): la gestione dei rifiuti speciali nel modello duale nord/sud Italia, la democrazia delle istituzioni nello stato di emergenza e la gestione delle risorse naturali nella crisi dello sviluppo.

Queste metodologie di ricerca sopra accennate saranno utilizzate nei capitoli che seguono. In particolare, nel 1° capitolo si metterà a fuoco il contesto in cui il problema dei rifiuti è nato, fornendo poi un approccio geografico al tema; l'oggetto fondamentale del 2° capitolo sarà invece quello della relazione tra consumo delle risorse e produzione di rifiuti. Sarà analizzata poi l'attuale governance transcalare delle risorse e dei rifiuti, le relative politiche a scala mondiale, europea e italiana e la loro applicazione. Nella seconda parte della tesi ci si dedica ai conflitti generati nella gestione dei rifiuti, descrivendo il sistema

campano di smaltimento dei rifiuti, all'origine di quel conflitto “totale”9, sempre però nella

cornice di un ampio contesto internazionale, tenendo conto della letteratura sui conflitti

ambientali (cap. 3° e 4°). Nel capitolo 4° si analizzerà meglio il conflitto campano e le

9 Cfr. Faggi P., Turco A. (a cura di), Conflitti ambientali. Genesi, sviluppo, gestione, Milano, Unicopli,

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reazioni delle comunità territoriali internazionali, che spesso reclamano politiche di gestione condivisa e più sostenibile del territorio, con qualche episodio di successo partito dal basso o guidato dall'alto. Risulterà dunque utile interrogarsi sul ruolo delle istituzioni

e dei cittadini nella governance territoriale, e della partecipazione come possibile mezzo di

pianificazione durevole e condivisa del territorio, non solo nel settore rifiuti. La necessità di ricercare modelli di sviluppo più condivisi e sostenibili resta comunque una questione aperta. Questa ricerca intende aprire ulteriori spunti critici in tal senso, intervenendo in un ambito, quello dell'origine dei rifiuti, non del tutto esplorato dal punto di vista dell'approccio geografico.

Ringraziamenti

Questo lavoro ha avuto inizio sotto la guida di Pasquale Coppola, che ne approvò i primi schemi e mi diede la fiducia e gli stimoli adatti per continuare. Nel seppur non lungo periodo in cui ho avuto il privilegio di confrontarmi con lui ho potuto apprezzare le sue doti scientifiche di studioso interessato e attivo fino alla fine, sempre pronto a trovare nuovi spunti critici e di riflessione nella ricerca, per meglio comprendere la realtà e per indirizzarne, ove possibile, l'agire politico. Queste doti erano accompagnate da altrettanto limpide doti umane, che egli metteva nel suo lavoro quotidiano, nel costante anelito per rendere concreta la democrazia. A lui va la prima dedica. Coppola ha avuto anche il merito di creare un ottimo gruppo di geografi. Col gruppo dell'Orientale ho proseguito la mia formazione e la mia ricerca, e ognuno di loro mi ha dedicato una piccola o grande parte del suo tempo: un sentito “grazie” dunque a Sergio Ventriglia, Rosario Sommella e Maurizio Memoli, che hanno seguito direttamente il mio lavoro dopo Coppola, e a Fabio Amato, Floriana Galluccio, René G. Maury, Lida Viganoni, che sono sempre stati generosi nel dispensare consigli scientifici e non.

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Con Marco Armiero (storico dell'ambiente) e Giacomo D'Alisa (dottorando in economia) ho condiviso l'interesse multidisciplinare per i conflitti ambientali e per la difesa dei “beni comuni”, progettando insieme, dialogando e scambiando studi e ricerche: un grazie per avermi dato la possibilità di allargare gli orizzonti di riflessione.

Un ringraziamento generale va invece ai movimenti di cittadini: sia coloro che difendono sé stessi dagli eccessi dell'attuale ideologia dominante, sia quelli che hanno fatto un salto di qualità e lottano per “mondi migliori”, confrontandosi su idee di nuovi “mondi possibili”. Agli attivisti campani devo poi molta della conoscenza sul campo delle criticità del territorio regionale. Ai piccoli e grandi gruppi attivi e in movimento nel mondo va dunque la seconda dedica.

Un generico ringraziamento anche a tutti coloro che, semplicemente facendo il proprio lavoro con coscienza, permettono anche nel Mezzogiorno di fare ricerca. Con la speranza che essa non resti arido inchiostro, ma torni utile alla società.

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PRIMA PARTE

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CAP. 1

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1. Introduzione

Il degrado dell’ambiente, legato all’antropizzazione, è già stato sperimentato in luoghi e tempi diversi nel passato, provocando modificazioni che ancor oggi generano effetti negativi, come ad esempio quelle che, in Italia come altrove, hanno provocato l’erosione delle pendici montane a causa dei disboscamenti effettuati nel Medioevo per ampliare i terreni dedicati al pascolo o all’agricoltura, lasciando oggi la macchia, che è

considerata “tipica” di alcuni rilievi.10 Ma è con la rivoluzione industriale che si compie un

vero e proprio sconvolgimento nell’uso delle risorse naturali. C’è chi, come il premio

Nobel per la chimica 1995, Paul Crutzen, parla di una nuova era geologica, l’antropocene, di

cui sancisce l’inizio proprio con la prima rivoluzione industriale (iniziata in Inghilterra nella seconda metà del XVIII secolo). Da allora le società umane hanno iniziato a modificare l’evoluzione di tutta la vita sulla terra, influenzando il clima del pianeta e

diminuendone la biodiversità.11 La seconda rivoluzione industriale, poi, rappresenta il

passaggio più significativo verso un’epoca di grande cambiamento riguardante l’uso delle risorse naturali. Basata su una serie di scoperte scientifiche e sulla loro applicazione in numerose innovazioni tecnologiche, aprì la strada a nuove produzioni in serie e a nuove abitudini di consumo, che erano legate ad un generale rinnovamento nelle società occidentali, maggiormente partecipi alla vita pubblica. La seconda rivoluzione industriale ha rappresentato anche l’epoca in cui il capitalismo occidentale si è espanso e diffuso nel mondo, ed ha costruito i suoi paradigmi economici “normali” (nel senso khuniano del

termine12). Dunque il sistema economico capitalistico occidentale ha prodotto una fase di

lunga espansione economica e di allargamento del mercato e della domanda, che è via via divenuta di massa, grazie alle nuove possibilità di produzione offerte dalla catena di

montaggio e dal sistema fordista-tayolorista di produzione, applicato alla grande industria,

e grazie ai progressi nella medicina, nell’igiene e nell’industria alimentare (nuove tecniche agricole, utilizzo dei fertilizzanti inorganici, nuove modalità di conservazione degli

alimenti).13 Tutte queste innovazioni consentirono un’enorme espansione della

10 Cfr. ad es. Tinacci Mossello M., Politica dell’ambiente. Analisi, azioni, progetti, Bologna, Il Mulino,

2008 p. 25, oppure Bevilacqua P., La terra è finita. Breve storia dell’ambiente, Bari, Laterza, 2006, p. 67.

11 Cfr. ad esempio Bevilacqua P. (2006), op. cit., p. 114, o Crutzen Paul J., Benvenuti nell'Antropocene. L'uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Milano, Mondadori, 2005.

12 Il testo di Tinacci Mossello M. (2008), op. cit., spiega il pensiero di Khun riguardo l’evoluzione del

pensiero scientifico, che proseguirebbe per fasi piuttosto che per accumulazione di conoscenze: vi sono paradigmi scientifici dominanti, o ‘normali’, che possono essere interrotti da ‘rivoluzioni’ scientifiche in cui il vecchio paradigma è messo in crisi e potrà lasciare spazio ad una visuale nuova, che a sua volta potrà diventare dominante. Cfr. nota 22 a p. 60 oppure p. 378.

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popolazione in Europa e Nord America: un boom demografico che, nei paesi

industrializzati, ha raggiunto oggi la fase della crescita zero, o del regime moderno in base

alla teoria della transizione demografica.14

Questa corsa al progresso, attuata almeno nei paesi industrializzati, ha permesso la realizzazione di obiettivi economici e di benessere sociale di grande respiro. Tuttavia, come ormai acquisito dalla scienza, dall’opinione pubblica, e da tutti i governi del

mondo15, questi avanzamenti della storia contemporanea hanno un’altra faccia della

medaglia, rappresentata dal degrado ambientale e dalle conseguenze nei rapporti tra i

gruppi sociali. Il dominio quasi incontrastato delle società umane sulla natura ha reso i

tempi storici molto più veloci rispetto a quelli della natura16. Considerando ancora la teoria

dell’evoluzione del pensiero scientifico di Kuhn, diremmo che le preoccupazioni per i recenti problemi ambientali hanno spinto verso una progressiva evoluzione del pensiero verso un nuovo paradigma, quello dello sviluppo sostenibile, e verso una fase di crisi del paradigma economico neoclassico. Nato dall’idea di alcuni scienziati “eretici” rispetto alla scienza dominante, come i Meadows del famoso rapporto del 1972 per il Club di Roma

The Limits to Growth, o come l'economista Georgescu-Roegen, lo sviluppo sostenibile è

però entrato a far parte del pensiero mainstream stesso (pur con approcci diversi che danno

maggiore o minore rilevanza alla efficacia economica rispetto alla salvaguardia degli ecosistemi). Lo sviluppo sostenibile, infatti, porta con se tutte le contraddizioni del

concetto di sviluppo17 e dell’ossimoro che si forma, secondo molti critici, accostando il

sostantivo “sviluppo” all’aggettivo “sostenibile”. Queste critiche hanno senso soprattutto quando il paradigma dello sviluppo sostenibile viene edulcorato nelle applicazioni pratiche e nelle teorizzazioni di molti governi allo scopo di soddisfare le esigenze

economiche imposte dal mercato. Il dominio attuale nella governance del mondo

dell’economia neo-classica e del Washington Consensus18, infatti, condiziona le politiche

massa”.

14 La teoria considera tre fasi, basate sull’osservazione empirica della realtà: la prima, definita antica,

tipica delle società preindustriali, è caratterizzata da alti tassi di natalità e corrispondenti tassi di mortalità. La seconda, o stadio della transizione, è composto da due momenti: nel primo si riduce la mortalità grazie a migliori condizioni di vita; nel seecondo si riduce anche la natalità, fino a giungere alla terza fase o regime moderno in cui la riduzione della natalità eguaglia la mortalità o addirittura diviene inferiore. Cfr. Conti, Dematteis, Lanza, Nano, Geografia dell’economia mondiale, Torino, Utet, 2006, pp. 68-69.

15 Prova ne è la stagione delle grandi conferenze mondiali sui problemi ambientali, iniziata nel 1972

con la Conferenza di Stoccolma sull’“Ambiente umano”, al termine della quale prende vita l’UNEP (United Nation Environment Program), col compito di promuovere la tutela dell’ambiente e la qualità della vita delle generazioni presenti e future, stimolando partnership, informando e mettendo a punto programmi e convenzioni internazionali.

16 Si veda il libro di Tiezzi E., Tempi storici e tempi biologici, Milano, Garzanti, 1987

17 Si veda, ad es., la critica allo sviluppo fatta da Gilbert Rist, nel libro Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.

18 L’economia classica non assume la natura all’interno del sistema economico. Nelle successive

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della maggior parte dei paesi. Essi pongono al primo posto, ancora oggi, dopo la

concettualizzazione della differenza tra “crescita” e “sviluppo”19, l’aumento del PIL come

obiettivo, visto ancora come opportunità per migliorare il benessere sociale anche per le

fasce più povere della popolazione (secondo il concetto del trickle down effect20), senza tener

conto degli effetti negativi generati a livello inter e infra-generazionale (come messo in

evidenza dallo stesso Rapporto Bruntland Our Common Future, che nel 1987 lanciò il

concetto di sviluppo sostenibile, ripreso subito dopo dalla World Commission on

Environment and Development dell’ONU). Di sicuro, però, la diminuzione del PIL nell’attuale sistema economico genera disoccupazione e concentrazione della ricchezza: per questi motivi sarebbe necessario trovare soluzioni che permettano di conciliare minori impatti ambientali con maggior benessere sociale. A tale obiettivo mirano studi che non assumono gli indicatori economici come centrali, o che auspicano una stasi o una decrescita dell’economia e una riduzione degli sprechi e dei consumi superflui, gonfiati

da esigenze di profitto nel regime di mercato.21 Il dibattito su questi temi resta aperto.

2. Alle origini dei rifiuti: l’altra faccia della produzione

Le problematiche legate alla gestione degli scarti della produzione sono divenute, nel corso del novecento, sempre più pressanti sia nei paesi occidentali, sia nelle aree del mondo “in sviluppo”, essendo oggi uno dei principali problemi ambientali con cui la società contemporanea ha deciso, più o meno consapevolmente, di convivere. Ancora oggi, nonostante i notevoli progressi nelle normative nazionali e sovranazionali, troppo spesso gli scarti della società dei consumi sono, con indifferenza o peggio con dolo, abbandonati “sotto il tappeto”.

entrate a far parte del pensiero economico mainstream, guardano al sistema economico come ad un’istituzione umana (riprendendo Karl Polanyi e il suo lavoro La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 1974 (ed. or. 1944) sottoposta al sistema naturale.

19 Per crescita si intende un fenomeno strettamente quantitativo ed economico, mentre per sviluppo

si intende un miglioramento qualitativo della vita. Un esempio di indicatore che considera questa differenza è l’ISU, creato in ambito ONU in base a studi dell’economista Amartya Sen. Interessante è la messa a confronto dei paesi del mondo considerando PIL e ISU: si scopre che paesi relativamente ricchi sono superati da altri più poveri ma con una qualità della vita migliore. Si veda ad es. il cap. “Human development indicators” dello Human development report 2006 pubblicato dallo UNDP.

20 Secondo il modello di Rostow. Per una rassegna articolata degli studi economici del dopoguerra

sul tema degli squilibri geografici dello sviluppo si rimanda ai § successivi, e al cap. III “Lo sviluppo economico regionale” del libro Conti S., Geografia economica. Teorie e metodi, Torino, Utet, 1996, o al libro di Hettne B., Hettne B., Le teorie dello sviluppo, Roma, Asal, 1997.

21 Ad es. Nicholas Georgescu-Roegen ha per primo criticato la growthmania, mentre Serge Latouche e

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Come riconosce ad esempio l’Arpac22, agenzia che ha direttamente osservato gli effetti degli anni di caos amministrativo dell’emergenza rifiuti in Campania, i rifiuti rappresentano oggi «un’emergenza ambientale, unanimemente riconosciuta e presente capillarmente sul territorio nazionale, che coinvolge da un lato governo e gestione

dell’ambiente e, dall’altro, i comportamenti quotidiani di ogni cittadino»23. Sebbene sia

vero che in Italia la questione dei rifiuti si presenti spesso come un problema di particolare gravità, poiché, rispetto ad altri paesi europei, si sono scontati numerosi ritardi nell’attuazione delle normative europee più avanzate, in tutto il mondo si subiscono le conseguenze della crescita dei rifiuti. La questione è sicuramente collegata ai comportamenti individuali quotidiani, ma questi, a loro volta, sono generati dall’attuale sistema economico, basato su una massiccia produzione e un altrettanto intenso consumo. La scienza che studia le produzioni materiali e i consumi, l’economia, si è sempre o quasi occupata dei beni prodotti, e mai dell’altra faccia della medaglia della produzione, ovvero dei rifiuti. Sul diffuso oblio di questo spreco di risorse naturali, annota Guido Viale, si costruisce “la falsa coscienza di chi si compiace della straordinaria produttività della

tecnica moderna, senza mettere in conto i danni che essa provoca”24. Le attività umane di

produzione di beni e servizi svolte durante l’era industriale, infatti, stanno causando, sempre più pervasivamente, fenomeni di degradazione ecologica, dovuti ad uno sfruttamento degli ecosistemi naturali maggiore della loro capacità di carico. Superando la resilienza degli ecosistemi si possono verificare diverse forme di degrado, quali

l’inquinamento, la deforestazione, la desertificazione e l’erosione dei suoli.25 Questi

fenomeni hanno conosciuto, negli ultimi decenni, una grande accelerazione temporale e sono arrivati ad occupare sempre maggiori spazi dell’ecumene, già di per sé in

espansione26. Di questa espansione Almagià, ad esempio, fornisce un cartogramma in cui

mette in evidenza le differenze tra l’ecumene nel Medio Evo e quello dei primi anni ’40 del novecento. Nella carta si possono osservare le aree ecumeniche, termine che indica gli spazi della presenza umana, quelle subecumeniche, comprendenti gli ambienti in cui le comunità vivono soltanto periodicamente, e quelle anecumeniche, in cui risulta impossibile la vita per il genere umano.

22 Nella pubblicazione a cura di Grosso A., Vito M., Rifiuti. Produzione e gestione in Campania 2002-2007, uscita nel 2008 grazie ai fondi strutturali europei confluiti nella Mis. 1.1 del POR Campania 2000-2006 (Progetto Reporting Ambientale e Stato dell’Ambiente). Cfr. p. 1. L’Arpac è l’Agenzia Regionale per l’Ambiente della Campania.

23Ibidem, p. 1.

24 Viale G., Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 7. 25 Cfr. Segre A., Dansero E., op. cit., p.69.

26 Sul concetto di espansione dell’ecumene si veda il cap. “Ecumene in espansione” e la relativa

(17)

Fig. 1. Evoluzione dell’ecumene secondo Almagià

Legenda

1. Principali aree anecumeniche 2. Aree subecumeniche

3. Aree ecumeniche

4. Limiti polari dell’ecumene

5. Limiti dell’ecumene nel Tardo Medio Evo Proiezione: ellittica di Mollweide.

Fonte: Almagià R., Fondamenti di geografia generale, II, Geografia umana, Perrella e Cremonese, Roma, 1945-1972, citato in Vallega A., Geopolitica e sviluppo sostenibile : il sistema mondo del secolo XXI, Mursia, Milano, 1994, p. 241.

Nonostante tuttora rimangano spazi disabitati, come gli oceani e i poli, la pervasività degli agenti contaminanti ha travalicato le frontiere dell’ecumene, come mostrano ad esempio alcune indagini effettuate tramite carotaggi nei ghiacci artici o

antartici, o il curioso caso del pacific trash vortex, uno spaventoso insieme di rifiuti formato

in gran parte da vari tipi di plastica (circa per l’80%, mentre il resto consiste in immondizia varia), che, trasportato da correnti marine, staziona nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico a 500 miglia dalla California e a largo delle Hawaii, coprendo un’area di circa 2500 chilometri di diametro, tanto da essere stata soprannominata “la discarica più estesa del mondo”. I rifiuti, giunti fin qui da ogni dove, galleggiano trasportati dalle correnti e si

possono trovare fino a 30 metri di profondità.27 Questo fenomeno è dovuto al fatto che,

27 Cfr. l’articolo The trash vortex pubblicato sul sito internet di Greenpeace alla p. web

(18)

delle circa cento milioni di tonnellate di plastiche prodotte ogni anno, un 10% circa finisce

in mare, secondo calcoli dell’associazione Greenpeace. 28

Fig. 2. Il Pacific trash vortex nell’Oceano Pacifico

N.B.: Il puntinato chiaro rappresenta la possibile forma dello sciame di rifiuti, mentre le frecce le principali correnti oceaniche

Fonte: www.greenpeace.org.

Di per sé questo sciame di plastica non produrrebbe effetti negativi, se i pezzi in esso contenuti non fossero scambiati per prede da pesci e uccelli marini: si stima che più di un milione di uccelli e un centinaio di migliaia di tartarughe e mammiferi marini muoiano ogni anno a causa dell’ingestione di rifiuti galleggianti; inoltre, le plastiche tenute insieme

dalla corrente potrebbero anche fungere da “spugna chimica”29, ovvero da attrattore per

altri fra i peggiori inquinanti trovati anche negli oceani, i Pop (Persistent Organic Pollutant), composti del carbonio, come Ddt, diossine e furani, che sono altamente tossici per gli organismi viventi, e che si accumulano nei loro tessuti grassi e rimangono intatti

nell’ambiente, inserendosi nella catena alimentare, per tempi lunghissimi.30

Da tempo sappiamo che l’inquinamento ha travalicato i confini nazionali ed è divenuto un fenomeno con ricadute globali. Una delle dimostrazioni di ciò è il cambiamento climatico in atto, sulle cui cause il dibattito è aperto. Il primo rapporto del 1990 dell’Ipcc (International Panel on Climate Change) era cauto sul significato del

28Ibidem. Si veda anche la lettera del Capitano.., inserita nei documenti on line dell’UNEP dal titolo

“Out in the pacific plastic is getting drastic. The world’s largest ‘landfill’ is in the middle of the ocean”, alla p. web http://marine-litter.gpa.unep.org/documents/World%27s_largest_landfill.pdf.

29Ibidem.

30 Già nel 1962 la biologa Rachel Carson, col suo libro Silent spring denunciava la pericolosità dei

(19)

riscaldamento in atto nel pianeta31, che corrispondeva alle previsioni fondate sui modelli climatologici. Nei successivi rapporti, stilati con una base di dati più ampia e affidabile, gli esperti del Panel si sono mostrati più pessimisti riguardo al cambiamento del clima e più decisi nel denunciare le responsabilità umane, nonostante permanga incertezza e impossibilità di prevedere con precisione gli scenari futuri.32 Anche la perdita della biodiversità, acceleratasi da vari decenni, ha tra le cause principali l’antropizzazione degli ambienti naturali e il loro inquinamento. Si calcola che ogni anno si perdano circa 30.000 specie, di cui probabilmente conosciamo solo un 10%, mentre le restanti non saranno mai più note! Le modifiche apportate ad alcuni habitat, in particolare, possono portare all’estinzione quelle, tra le specie che li abitano, che sono meno adattabili ad ambienti ed a climi diversi.33 Uno dei tradizionali motori del cambiamento degli ecosistemi da parte della specie umana è stata l’agricoltura. Oggi, sempre più rilevante è il contributo della crescita dei settori secondario e terziario, che contribuiscono al cambiamento climatico di tutto il sistema mondo. Torna dunque alla mente la metafora della “terra-navicella spaziale”, che l’economista Boulding creò negli anni sessanta per evidenziare che era

necessario non considerare più il pianeta come uno spazio ampio, da vivere (e sfruttare) à

la cow-boy, ma che erano necessari criteri di governo adatti ad una terra limitata.34 Più di

recente, un'altra metafora, quella del mondo come “villaggio globale”, sta a sottolineare le interconnessioni che esistono, a livello globale, anche in termini economici, politici, sociali ecc.

Se, come si diceva, l’ecumene è in espansione e anche negli spazi disabitati si possono constatare effetti della presenza umana, questa continua conquista del pianeta da parte delle società umane non è un prodotto contemporaneo, ma ha origini storiche che si possono far risalire per lo meno a tre secoli fa. Già con l’epoca delle grandi scoperte geografiche (sec. XV e XVI) le grandi potenze europee del tempo iniziarono a cercare, sempre più in maniera sistematica, nuove terre e nuovi mercati. E’, però, con il XVIII secolo che si verifica un importante spartiacque storico tra il passato e il mondo contemporaneo: infatti, almeno in Europa, alcuni limiti alla crescita della popolazione considerati in passato invalicabili, furono lentamente superati. Già in precedenza il continente aveva conosciuto fasi di espansione demografica (in particolare tra il XI e il XIII sec.), e di relativa prosperità economica, ma queste si erano concluse con grandi catastrofi

demografiche (epidemie, carestie) che avevano riportato la popolazione ai livelli

31 Ma non sull’effetto serra di origine antropica, tanto da costituire la base della Convenzione sui

cambiamenti climatici del 1992 nel vertice ONU di Rio de Janeiro.

32 Cfr. Tinacci Mossello M., op. cit., p. 244.

33 Cfr. Tinacci Mossello M., op. cit., in particolare il capitolo “Biodiversità e conservazione della

natura”.

(20)

precedenti, mentre tra l’inizio e la fine del settecento l’Europa giunse ad incrementare la sua popolazione da 118 a 187 milioni circa. Un insieme di cause contribuì a questa crescita senza precedenti: vi furono modesti progressi nel campo della medicina e in quello dell’igiene, ma le opportunità maggiori furono offerte dal miglioramento del regime alimentare e dallo sviluppo del commercio internazionale. Ai mezzi tradizionali dell’espansione delle colture, e alla diffusione delle nuove piante importate dalle colonie, quali mais e patate, più produttive dei cereali classici, si affiancarono gli importantissimi cambiamenti sviluppati nel campo dell’economia agraria: si lavorò all’intensificazione delle colture, modificando il regime tradizionale della proprietà fondiaria e dei diritti collettivi. Ingenti capitali furono utilizzati da proprietari dinamici e moderni, che, in nome della libera iniziativa e del diritto di proprietà privata riuscirono a sconfiggere i loro ostacoli diretti: da un lato, il latifondo dei nobili e della chiesa, coltivato in maniera estensiva e fuori dal sistema di commercio, dall’altro gli ‘usi civici’ delle comunità di villaggio, che, proprio a causa delle enclosures35 entrarono progressivamente in crisi.

Possiamo qui collocare l’inizio della “vittoria” della borghesia sulle altre classi sociali, e, di conseguenza, il principio di quella serie di eventi che farà nascere ed espandere il capitalismo, attraverso la rivoluzione industriale.

Dal punto di vista demografico, i cambiamenti finora descritti portarono il mondo occidentale a mutazioni strutturali della popolazione: i successivi miglioramenti delle condizioni di vita, grazie ai progressi della medicina avvenuti dal XIX secolo, permisero di

ridurre drasticamente la mortalità. Secondo la teoria della transizione demografica, questa è

la prima fase della transizione dopo il regime demografico antico, in cui la popolazione

cresce poiché si riduce la mortalità, mentre la natalità resta costante. Nella seconda fase di transizione, i tassi di natalità, che appaiono legati al modo di vita e al sistema sociale, si riducono in conseguenza all’inurbamento, per cui la crescita demografica rallenta. Nei paesi economicamente più avanzati si è raggiunta in media l’eguaglianza tra tasso di natalità e di mortalità, giungendo ad un livello di crescita zero (la popolazione si mantiene più o meno costante), o addirittura a fenomeni di decrescita della popolazione. Ma tali

cambiamenti demografici strutturali sono distribuiti geograficamente in maniera molto

diseguale. L’ultima fase, detta regime moderno, è ad oggi raggiunta solo da paesi

occidentali, mentre in gran parte dell’Africa sub sahariana, dell’Asia meridionale e in Bolivia in America Latina, la transizione è appena iniziata. Altre grandi aree si avvicinano al regime moderno, come il resto dell’America Latina e l’India, mentre la Cina ha quasi

completato la transizione.36 Questa teoria, che fotografa la realtà, mostra come la

35 Le enclosures si diffusero dapprima in Inghilterra, a partire dal sec. XVI, per poi diffondersi in tutta

Europa, dove proprietà privata e sviluppo agrario divennero sinonimi (Villari R, op. cit., p. 284).

36 Cfr. il cap. 11° “Ripresaeconomica, Illuminismo e riforme” di Villari R., Storia moderna, Bari,

(21)

popolazione del mondo sia cresciuta verso cifre in precedenza inimmaginabili, e superando anche le paure maltusiane riguardanti la carenza di cibo per tutti. Ma, di certo, la pressione demografica sulle risorse naturali è notevole, soprattutto perché, per far fronte alle necessità di più di 6 miliardi di persone, si è fatto ampio ricorso alla chimica in agricoltura, inserendo elementi inorganici in un sistema precedentemente organico, che, oltretutto, tendeva a riusare quasi tutti gli scarti. Anche i rifiuti urbani e le deiezioni degli uomini prodotti dalle città di molte aree del mondo erano usati come concimante dei campi, in modo da far tornare indietro la sostanza organica che dalla campagna era stata trasferita alla città. Ma, sul finire dell’Ottocento, motivi igienici e la diffusione di fertilizzanti inorganici, costituiti da «sostanze minerali sottratte alla terra una volta per

tutte» interruppero questo flusso di ritorno37.

Tornando al secolo dell’Illuminismo, il pianeta era abitato da 550 milioni di individui, che sono arrivati a 700 nel 1800, ad un miliardo e mezzo nell’anno 1900, raggiungendo i 6 miliardi dopo soli cento anni, nel 2000. E, rispetto all’ecumene, naturalmente la sua espansione è maggiormente comprensibile dando uno sguardo alla crescita numerica degli abitanti mondiali. Come dimostrato anche dalla crescita demografica, i più grandi cambiamenti nelle società umane si hanno tra l’Ottocento e il Novecento, con la seconda rivoluzione industriale e con la creazione della ‘società di massa’. Negli ultimi tre decenni dell’Ottocento i progressi industriali e la diffusione ad un pubblico ampio di “una serie di strumenti, di macchine e di oggetti di uso domestico che

sarebbero poi divenuti parte integrante della nostra vita quotidiana”38 hanno iniziato a

mutare le abitudini, i comportamenti e i modelli di consumo di centinaia di milioni di uomini. Tale processo, iniziato in Europa e proseguito negli Stati Uniti e, poi, in quello che diverrà il blocco sovietico, ha avuto una diffusione rapida e capillare nei paesi tecnologicamente più avanzati, ma, nel corso del Novecento, specie col processo di decolonizzazione, con l’internazionalizzazione dell’economia e con le nuove forme di divisione del lavoro a scala mondiale, si è diffuso anche in vari paesi del sud del mondo. La grande novità di fine ‘800 – inizi ‘900, sta nel fatto che le scoperte scientifiche, recenti o meno, trovarono applicazioni concrete, e sempre più a larga scala, nel mondo dell’industria. A questo periodo risalgono le invenzioni o le produzioni in massa del motore a scoppio e degli pneumatici, del tram e dell’automobile, della lampadina, del telefono, del grammofono, della macchina da scrivere ecc. “Ma gli sviluppi più interessanti si concentrarono in industrie relativamente ‘giovani’, come quella chimica o come quel

dell’economia mondiale. Nuova edizione, Torino, Utet, 2006.

37 Cfr. Bevilacqua P., op. cit., pp. 36-39.

38 Giardina A., Sabatucci G., Vidotto V., L’età contemporanea. Storia, documenti, storiografia, Bari,

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particolare ramo della metallurgia dedito alla produzione dell’acciaio”39, che, insieme al settore dell’elettronica, totalmente nuovo, svolsero un ruolo trainante nella seconda rivoluzione industriale come l’industria del cotone, e poi quella meccanica, fecero nella

prima in Inghilterra40. L’economista Georgescu-Roegen, critico delle teorie economiche da

lui stesso definite standard, vedeva, alla base di questo processo di evoluzione, l’utilizzo da

parte dell’uomo di strumenti esosomatici, che non appartenevano al suo patrimonio

genetico. L’origine delle disuguaglianze e dei conflitti sociali deriverebbe proprio da quel processo evolutivo non biologico della specie umana, che ha portato all’utilizzo di un numero sempre maggiore di strumenti e che si è tradotto in necessità economiche. Il processo di cui parla Georgescu-Roegen è sicuramente divenuto sempre più differenziato geograficamente. La corsa in avanti verso il progresso tecnologico dei paesi industrializzati ha permesso la realizzazione di obiettivi economici e di benessere sociale di grande respiro, che hanno però un’altra faccia della medaglia assai problematica come ormai noto

alla scienza, all’opinione pubblica, e pressappoco a tutti i governi del mondo41: questa

comprende problemi economico-sociali e problemi ambientali. Nei prossimi due sottoparagrafi si fornirà un quadro generale di queste questioni, che sono il contesto generale cui è indissolubilmente legato il tema dei rifiuti.

2.1 Ambiente e problemi socio-economici industrializzato. Ma anche i grandi temi ambientali quali clima, biodiversità, erosione dei

suoli eccetera dipendono dall’uso dello spazio fisico e dalla spartizione delle risorse. Le

modalità di utilizzo e di distribuzione delle stesse, durante il novecento, hanno alimentato in maniera crescente le differenziazioni mondiali negli indicatori di ricchezza e di sviluppo umano al livello mondiale: i progressi tecnologici del mondo industrializzato hanno condotto verso un utilizzo via via più massiccio di materia ed energia, causando un

metabolismo mondiale in grande crescita e fortemente disuguale. La questione ambientale è

39Ibidem. 40 Cfr. ibidem.

41 Prova ne è la stagione delle grandi conferenze mondiali sui problemi ambientali, iniziata nel 1972

(23)

dunque più complessa perché comprende anche le problematiche economiche di gestione dell’ambiente, basate su rapporti di potere non equamente distribuiti nel mondo.

Dunque, esaminando brevemente i passaggi fondamentali della sfera economico-sociale dal secondo dopoguerra, possiamo affermare che l’idea forte dell’economia neo-classica dell’epoca era quella del progresso lineare illimitato, che si sarebbe diffuso in tutto il globo. Negli anni sessanta, Rostow, economista statunitense, teorizzò che in tutti gli stati si dovessero attraversare alcune fasi di sviluppo ben definite (basandosi deterministicamente sulle vicende storiche dei paesi industrializzati). Queste avrebbero condotto ad abbandonare la società tradizionale, vista in termini negativi come limitativa

delle opportunità, e ad incamminarsi in un processo di modernizzazione della società, il cui

obiettivo ultimo era quello di arrivare alla fase dei «grandi consumi di massa» (in opposizione al modello stadiale di Marx dove si passava dal modo di produzione borghese a quello comunista). Questo modello ebbe molto successo, benché schematico,

deterministico e uguale per tutti i paesi42. Rostow fu smentito dagli eventi, così come la

teoria del trickle down effect o effetto sgocciolamento, secondo cui il benessere si sarebbe

diffuso, poco per volta, dai paesi più avanzati verso gli altri, attraverso la continua crescita economica. In questo periodo era in atto una mitizzazione della crescita economica, vista come soluzione di tutti i mali: gli squilibri economici regionali o areali apparivano come

momentanei scostamenti anomali dal modello neoclassico dell’equilibrio economico,

equilibrio che, nel lungo periodo, si sarebbe ripristinato.43

A partire dagli anni sessanta, però, si cominciarono a constatare i fallimenti del pensiero economico dominante. Alcuni studiosi, in parte appartenenti alla periferia, si resero conto che le teorie neoclassiche si basavano su una realtà idealizzata, prescindente da moltissimi fattori presenti nell’economia reale (economie interne ed esterne di scala, asimmetria nelle relazioni tra soggetti economici in competizione, divario nell’allocazione

dei fattori di produzione e delle risorse ecc.). Nacquero perciò teorie dello squilibrio economico, che, «scoprendo» le polarizzazioni dello sviluppo (con Perroux), giunsero a teorizzare la possibilità (con Hirschman) o la imprescindibilità (con Myrdal) del processo di causazione circolare e cumulativa dello sviluppo economico (e sociale): più sviluppata è un’area, maggiori investimenti attrarrà, e dunque anche nuovi progressi e maggiore crescita economica. Tra gli anni ’60 e ’70, poi, il sistema di relazioni di mercato vigente verrà ricondotto dagli economisti neomarxisti ad un disegno ben preciso, architettato dal

centro per perpetuare lo sfruttamento della periferia nel sistema mondo.44 Tali critiche sono contestate da coloro che sono ancora fiduciosi nella possibilità di avanzamento dei paesi

42 Citato in Tinacci Mossello M., op. cit., pp. 35-36.

43 Per una rassegna articolata degli studi economici del dopoguerra sul tema degli squilibri

geografici dello sviluppo si rimanda al cap. III “Lo sviluppo economico regionale” del libro Conti S.,

(24)

considerati sottosviluppati, ad esempio attraverso alcune forme di aiuto pubblico allo sviluppo (Aps, consistente in prestiti agevolati, trasferimento di tecnologie o donazioni

forniti dai paesi membri del Dac45 direttamente o dalle istituzioni finanziarie internazionali

da loro finanziate46). Dunque, ancor oggi, mutatis mutandis, le teorie di Rostow hanno qualche seguito. Nonostante il dibattito sia acceso, e le critiche verso l’attuale modello di sviluppo siano in aumento, specie in seguito ai movimenti del ’68 e poi a quelli “di Seattle” sulla globalizzazione economica47, le imprese multinazionali e i paesi membri del G8, ovvero gli enti che dominano l’economia internazionale non paiono fare scelte convinte verso nuove strategie di sviluppo e di redistribuzione delle risorse. Le politiche internazionali insistono sempre sulla necessità di perseguire la crescita economica e l’apertura dei mercati (il tutto bilanciato da una certa dose di promesse di aiuti ai paesi poveri e impegni a lungo termine per ridurre l’impatto ambientale). Anche per la recente crisi economica della prima metà del 2009, gli otto leader hanno ribadito, nell’ultimo incontro del G8 dell’Aquila del luglio 2009, l’importanza dell’apertura dei mercati come

già proposto nel Doha round del Wto, incontro negoziale interministeriale che ebbe inizio

in Qatar nel 2001 e che non si è ancora concluso: ha attraversato molti fallimenti e fasi di stallo lungo gli anni. I numerosi tentativi di negoziazione sulla liberalizzazione del commercio sono falliti a causa del disaccordo tra paesi ricchi e grandi paesi emergenti, in

particolare sul tema del commercio in agricoltura48.

Se analizziamo le differenze economiche mondiali con la semplicistica analisi bipolare Sud/Nord (però valida come dato di massima), seguendo la tradizionale linea

divisoria di Willy Brand49, le due grandi aree individuate continuano ad essere

economicamente assai sperequate. Questa semplice analisi acquista valore se si considera che, per lo più, gli squilibri tra le due aree sono in crescita: nel 1700 lo scarto tra paesi ricchi e poveri era calcolato in uno a due; alla fine dell’800 era aumentato a uno a cinque,

44 Centro, semiperiferia e periferia sono categorie utilizzate da Wallerstein negli anni ’70. V. nota

precedente.

45 La Development Assistance Committee (Dad) dell’Oecd è un forum dei maggiori paesi donatori.

Sono attualmente 22 più la Commissione europea e fanno tutti parte della Triade globale.

46 In primis Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale

47 Per una sintetica descrizione del movimento “di Seattle” o di “Porto Alegre” (definito anche, con

una dizione non troppo esplicativa, come movimento No-global). Si veda l’Introduzione a p. 6.

48 Cfr. “Accordo sul Doha Round nel 2010. Già pronto il comunicato del G8”, in Affari e Finanza,

settimanale inserto de La Repubblica del 7 luglio 2009.

49 Il concetto di Sud del mondo ha assunto un significato che prescinde dalle coordinate geografiche

per rappresentare gli squilibri internazionali, dato che, grossomodo, i paesi ad economia avanzata sono posizionati nell’emisfero settentrionale. Deriva dalla linea Brand, tracciata dal cancelliere tedesco nel suo ruolo di presidente della Commissione indipendente per i problemi dello sviluppo internazionale (1980). Con “i Sud del mondo” ci si riferisce ad aree del mondo con indicatori economici e di sviluppo umano bassi, ma oggi sempre più variegati, contrapposti al Nord, che comprende invece i paesi della triade globale

(25)

divenuto uno a quindici nel 1960 e uno a quarantacinque nel 1980, in un quadro di crescita della popolazione che ha amplificato, in termini assoluti, le già enormi quote di poveri.

Tab. 1. Crescita del divario tra Nord e Sud del mondo

Anni Divario economico tra Nord e Sud

Oggi il divario economico tra alcuni significativi agglomerati geopolitici può essere agevolmente rappresentato dalle statistiche che riguardano la ricchezza economica: Stati Uniti e Canada raggiungono i 17.000 miliardi di dollari all’anno, l’Unione Europea “dei venticinque” 8.500 miliardi, il Giappone 4.300 miliardi, l’Australia e la Nuova Zelanda 450 miliardi. Tutti insieme, questi paesi «si dividono il 78% del PNL mondiale, lasciando solo 6.700 miliardi all’Asia [Giappone escluso], all’Africa e all’America Latina. In cambio, questi ultimi tre continenti raggruppano l’85% della popolazione mondiale, contro il 15%

dei paesi sviluppati. In questo quadro, non c’è da stupirsi degli enormi scarti di PNL per

abitante tra gli stati più ricchi e quelli più poveri»50: il reddito pro-capite, nelle statistiche,

passa da quote maggiori di 30.000 dollari all’anno per i paesi ricchi a 100-200 dollari per quelli in fondo alla lista, come la Repubblica democratica del Congo o l’Etiopia.

La povertà non si misura solo a livello economico. Ci sono disuguaglianze che concernono tutte le attività umane, e vi sono abbondanti studi su altrettanto abbondanti parametri di riferimento quali «la salute, la mortalità, l’alimentazione, i consumi,

l’educazione, l’alfabetizzazione, l’insegnamento ad ogni livello, il confort quotidiano,

l’accesso alla cultura, il turismo, l’organizzazione del tempo libero, il rapporto con la natura, le grandi catastrofi, le carestie, le guerre ecc.»51 Per quanto concerne la nostra ricerca, è importante notare la sperequazione nello sfruttamento delle risorse naturali e nel consumo. Sui consumi, dati significativi emergono dal Vertice di Johannesburg del 2002: il 15% della popolazione mondiale, quella che vive nei paesi ad alto reddito, è responsabile del 56% dei consumi mondiali complessivi, mentre il 40% più povero raggiunge solo l’11%

degli stessi.52 Considerando che all’inizio del 2000 la popolazione mondiale ha raggiunto (e

50 Frémont A., Vi piace la geografia?, Roma, Carocci, 2008, p. 201. 51Ibidem, p. 202.

52 Dipartimento per la Pubblica Informazione delle Nazioni Unite, documento di sintesi del Vertice

(26)

superato) i 2 miliardi, queste percentuali significano che poco più di 900 milioni di persone rappresentano il 56% del consumo mondiale, mentre, con l’11% dei consumi se lo dividono quasi due miliardi e mezzo di abitanti. I dati, e il loro andamento storico,

dimostrano come il raggiungimento del mito del progresso occidentale sia ormai relegato

nel novero delle illusioni, stante l’attuale situazione geopolitica mondiale. Sarebbe necessaria, infatti, una crescita economica tale da portare agli stessi livelli di consumo del Nord i paesi del Sud. Ma sappiamo, osservava Rist nel 1996, utilizzando dati del vertice di Rio del 1992, che «il 20% degli uomini consuma l’80% delle risorse del pianeta, [quindi]

non è possibile mobilitare almeno il quadruplo delle risorse»53 per eliminare il divario. La

crescita, infatti, non può essere infinita, a causa dei limiti ambientali riconosciuti ormai

quasi da tutti54. Una conferma di quanto detto possiamo trovarla nel calcolo dell’impronta

ecologica mondiale. Questo indice, seppur consista in un aggregato di indicatori e, per come è strutturato, non può essere del tutto preciso, dà però un’idea delle tendenze in atto: lo sfruttamento crescente delle risorse naturali, già dalla metà degli anni ’80, causava un

eccesso di domanda annuale di risorse rispetto alla possibilità delle stesse di rigenerarsi.55

53 Rist G., Lo Sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, (ed originale

del 1996), p. 50.

54 Nel 1972, anno di pubblicazione di The limits to growth, la questione del limite non era affatto

scontata, e, anzi, il rapporto venne criticato (per molti versi a ragione, col senno di poi) per le sue previsioni altamente catastrofiste. Ma, nell’epoca delle grandi conferenze internazionali sull’ambiente e sullo sviluppo questo concetto fu accettato, tanto da creare il paradigma dello sviluppo sostenibile. Nonostante ciò, non sono state prese azioni decisive per porre limiti forti alla crescita economica divoratrice di risorse naturali.

55 Si vedano i lavori del Global Footprint Network, istituto diretto da Mathis Wackernagel, allievo di

(27)

Fig. 3 Crescita dell’impronta ecologica mondiale e possibili tendenze future

a) secondo il WWF

b) secondo il Global Footprint Network

a)

b)

Fonte: siti internet del WWF, www.panda.org e del Global Footprint Network, www.footprintnetwork.org.

(28)

Questo trend è in aumento, e solo un cambio di rotta nei consumi potrebbe eliminare rischi per l’ambiente e gli esseri viventi. Ma ‘tornare indietro’ diviene sempre più complicato considerando il peso dei conflitti internazionali in atto per l’accaparramento delle risorse chiave sia tra le potenze tradizionali, sia tra queste ultime e quelle nuove: il desiderio di molti paesi emergenti di ripercorrere le tappe dello sviluppo che sono state dei paesi occidentali è forte, come ad esempio testimonia l’attuale dinamismo cinese in Africa e Asia alla ricerca di paesi fornitori di materie prime con cui fare accordi.

Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla desiderabilità e sulla bontà del progresso e dello sviluppo economico e sulla sua ineluttabilità, mentre numerose sono le applicazioni

pratiche delle teorie economiche standard56. Una delle ultime forme di applicazione delle

teorie economiche in favore della crescita economica si ritrova spesso nelle iniziative di cooperazione internazionale, che, nei suoi differenti aspetti e con le sue diverse anime,

prova a diffondere lo sviluppo economico nelle aree sottosviluppate. Gilbert Rist, autore

che fa una critica sistematica dello sviluppo, parla di un “sistema dello sviluppo”57. Dato

che «da due secoli a questa parte, l’insieme dei beni messi a disposizione degli uomini ha conosciuto una crescita prodigiosa, che il progresso delle tecniche ha reso più facile l’esistenza di coloro che ne beneficiano, [e che] la speranza di vita, complessivamente, è

notevolmente aumentata»58, si pensa che tale sistema possa estendersi all’insieme del

pianeta. Ma il problema dell’ideologia dello sviluppo, secondo Rist, sta nel combinare insieme il vero e il falso: si crede possibile una diffusione dello sviluppo senza tener conto del divario incolmabile tra le disuguali aree del mondo. Per i fautori dello sviluppo,

continua Rist, «bisogna fare come se la credenza fosse ragionevole e l’obiettivo

raggiungibile»59. Il progresso rimane dunque possibile solo per una minoranza della

popolazione mondiale, mentre la credenza individuata da Rist si basa su «una visione

evoluzionistica della storia (al termine della quale tutti dovrebbero giungere allo stesso sviluppo) e […] una rappresentazione asintotica della crescita (considerata come il fondamento dello sviluppo)»: ma, dato che il tempo scorre allo stesso modo per tutti, raggiungere i paesi ricchi è impossibile, mentre sarà invece normale una tendenza all’aumento del divario. Questo aumento si è verificato, storicamente, come mostrano i dati precedentemente illustrati.

Un altro aspetto cruciale per meglio comprendere le molte implicazioni che ha lo sviluppo è quello culturale. «Il discorso sullo sviluppo si interseca in larghissima parte

56 Definite così da Georgescu-Roegen.

57 Cfr Rist G., op cit. Si vedano le pp. 49 e segg., e il cap. 2 “Le metamorfosi di un mito occidentale”. 58Ibidem, p. 50.

Gambar

Fig. 1. Evoluzione dell’ecumene secondo Almagià
Fig. 3 Crescita dell’impronta ecologica mondiale e possibili tendenze future
Fig. 5. L'impronta ecologica per paese al 1961 e al 2005
Fig. 6. La bio-capacità per paese al 1961 e al 2005
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